by Chiara Cruciati * | 24 Marzo 2019 11:16
Rojava a Damasco: «Ora dialogo». Punto interrogativo su Idlib, ancora in mano ai qaedisti, e Afrin occupata dalla Turchia
La bandiera gialla, al centro la sagoma della Siria, sventola su una delle colline di Baghouz. Un’altra dal tetto dell’edificio in cui il comando delle Sdf, le Forze democratiche siriane, annuncia la liberazione della cittadina. Di vessilli neri, cupi messaggeri dell’ideologia fascistoide di Daesh, non ce ne sono più. Accanto a Çiya Fırat, a capo della campagna per la ripresa di Baghouz, ci sono i combattenti, donne e uomini.
Sorridono. Sotto si vede la comunità semi distrutta dalla battaglia finale e i veicoli e le tende abbandonate dagli islamisti in fuga. Ieri Fırat ha dato la conferma di quanto avvenuto due giorni fa: il 21 marzo, giorno di Newroz, il capodanno curdo, l’Isis è stato sconfitto, privato di ogni enclave territoriale in Siria. «Dedichiamo la vittoria ai popoli curdi, arabi, siriaci e a tutti i popoli della regione e del mondo. Dichiariamo la sconfitta territoriale dell’Isis».
In poche parole c’è tanto: c’è la natura multietnica e multiconfessionale delle Sdf, c’è l’appartenenza alla nazione siriana, ribadita da quella bandiera, e c’è la consapevolezza che Daesh esiste ancora.
Sono trascorsi sei anni dalla presa di Raqqa, quella che poi divenne la «capitale» siriana del sedicente califfato. Sei anni in cui il «califfo» al-Baghdadi è arrivato a controllare un terzo di Siria, mezzo Iraq, a imbastire la struttura di uno Stato con un sistema giudiziario, educativo, amministrativo, commercio interno ed export (contrabbando di petrolio e reperti archeologici) verso l’esterno.
Ma soprattutto ha costruito una mentalità che si è allargata, arrivando a fare proseliti in Africa e Asia. Ha attirato, con una sopraffina strategia comunicativa, modernissima, foreign fighters da mezzo mondo, Europa compresa. Ora quello «Stato» non esiste più, ma l’Isis c’è ancora. Sotto forma di “filiali” in Africa, Asia centrale e Medio Oriente e di cellule attive in Siria e Iraq.
Ma ieri era il tempo della festa. E del primo passo verso un ordine nuovo. Dal tetto di Baghouz il comandante delle Sdf Mazloum Kobane si è rivolto a Damasco perché scelga «la via del dialogo» sull’assetto della regione curda di Rojava: autonomia dentro lo Stato siriano. E si è rivolto alla Turchia che occupa Afrin e il nord-ovest del fiume Eufrate in aperta violazione della sovranità siriana e del diritto internazionale.
Sul carro dei vincitori ieri sono saliti in tanti, dalla Francia agli Stati uniti, questi ultimi parte in causa con bombardamenti aerei che negli ultimi giorni si sono pressoché interrotti per l’alto numero di civili intrappolati a Baghouz. Negli ultimi due mesi (l’offensiva è partita a inizio febbraio), oltre 60mila civili sono stati evacuati dalle Sdf, ma in migliaia sono rimasti dentro, ostaggio (tra loro molte donne yazide rapite nel 2014 a Sinjar). E civili sono morti: circa 600 avrebbero perso la vita, accanto a 730 combattenti delle Sdf. Tra loro Lorenzo Orsetti, ucciso una settimana fa alle spalle.
Migliaia gli islamisti che si sono arresi insieme alle loro famiglie o fatti prigionieri. Altri sono riusciti a scappare nel deserto. Resta il mistero al-Baghdadi. Nelle ultime settimane lo davano a Baghouz, ora Washington indica l’Iraq. La realtà è che nessuno lo sa, come non si sa se sia vivo o morto.
Accanto ai due punti interrogativi sulla sorte del «califfo», ce n’è un terzo: Idlib, ultimo pezzo di Siria – con Afrin – non controllato da Damasco ma tuttora hub islamista governato da al Qaeda e la sua galassia di milizie jihadiste. Su Idlib si è posato un velo, sotto forma di accordo di temporanea tregua tra Russia, Turchia e Iran. Ma prima o poi anche quella contraddizione è destinata a scoppiare.
* Fonte: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO[1]
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