Siria. Il giovane italiano ucciso dall’Isis, «Lorenzo non è un caduto di serie b»

Siria. Il giovane italiano ucciso dall’Isis, «Lorenzo non è un caduto di serie b»

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Il giovane italiano combattente delle Ypg ucciso dall’Isis nella battaglia di Baghouz. Il padre: «Istituzioni in silenzio»

«Non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà. Ricordate sempre che “ogni tempesta comincia con una singola goccia”. Cercate di essere voi quella goccia».

Sono le parole di Lorenzo Orsetti, rese pubbliche ieri dalle unità di difesa curde Ypg dopo la conferma dell’uccisione, per mano dell’Isis, del giovane italiano.

Trentatré anni, fiorentino, Lorenzo – nome di battaglia Tekoser, lottatore – è stato ucciso a Baghouz, ultima enclave territoriale dell’Isis in Siria. La battaglia finale come è stata chiamata, con migliaia di curdi, arabi, turkmeni impegnati contro centinaia di miliziani islamisti rimasti nel villaggio. Pochi ma, come si temeva, intenzionati a resistere fino alla fine. Lorenzo sarebbe morto in un’imboscata. Con lui, con Orso – così in Italia lo chiamano i compagni – sarebbe stata uccisa tutta la sua unità.

«Ci avrebbe fatto piacere un po’ di vicinanza istituzionale, politica, ma nessuno si è messo in contatto con noi – dice al manifesto il padre Alessandro – è vero che ancora il corpo non è stato ritrovato, è ancora nel campo di battaglia, ma ci sono le sue foto, quelle dei documenti. Lo abbiamo saputo dalla tv. Poi ci è stato confermato dai curdi, ci ha chiamato il suo comandante. Ci ha invitato ad andare lì per le commemorazioni, il suo desiderio era di essere seppellito in Siria».

«È un caduto di serie B, fosse stato un altro forse ci avrebbero chiamato. Ma forse era dalla parte “sbagliata” della barricata».

In Siria Orsetti era arrivato nel settembre-ottobre del 2017, ci racconta Davide Grasso, ex combattente delle Ypg: «L’ho conosciuto in Siria, erano le ultime fasi della battaglia di Raqqa. Dopo l’addestramento ha partecipato all’offensiva di Deir Ezzor. Poi a gennaio il cantone curdo di Afrin è stato invaso dai turchi e lui, con altri internazionalisti, ha insistito per andare. In battaglia si è distinto, è stato tra gli ultimi a lasciare il cantone. Lorenzo è stato tra i combattenti che ha avuto l’atteggiamento più generoso sul piano militare».

Per unirsi alle Ypg aveva lasciato il lavoro in un ristorante poco fuori Firenze, sulla spinta della vicinanza agli ideali che muovono da anni il confederalismo democratico in corso a Rojava: «Una società più giusta ed equa», diceva Orso in un’intervista rilasciata poco tempo fa a Radio Onda Rossa. Un anarchico, si definiva. A Rifredi la sua partenza per la Siria ha portato alla nascita del gruppo «Da Rifredi ad Afrin». Su Fb raccontava la battaglia di Baghouz, “rallentata” in questi giorni per la presenza di migliaia di civili: «Rallentare non vuol dire che non si combatte – continua Davide – ma più scontri di terra e meno aviazione»

A dare per primo la notizia della sua uccisione è stato lo Stato islamico: sul sito Amaq, ormai da anni «agenzia stampa» del sedicente califfato, l’Isis ha pubblicato la foto del corpo di Lorenzo (definito con spregio «crociato italiano») e dei suoi documenti. «Noi nelle Ypg non abbiamo mai toccato un prigioniero, quello che fatto l’Isis è disgustoso», ci dice un amico di Lorenzo, ex combattente anche lui. Nome di battaglia Dilsoz: «Abbiamo combattuto insieme ad Afrin, in una guerra che ci riguarda tutti, dove la Turchia ha cacciato le Sdf per sostituirle con i jihadisti. Quando si muore così, si diventa un martire: perché quello per cui si è morti, non muore».

«Lorenzo era un compagno, un proletario, uno che lavorava. Era molto semplice, non aveva bisogno di grandi discorsi politici per sapere da che parte stare – continua Dilsoz – Gli volevano tutti bene, la condivisione gli veniva naturale». Due mesi fa a morire nella lotta all’Isis era stato il 50enne Giovanni Francesco Asperti, nome di battaglia Hiwa Bosco. Due vite spese al fianco di una rivoluzione ma che in Italia il sistema politico e giudiziario reprime.

Ieri il ministro dell’interno Salvini affidava a Twitter «una preghiera per Lorenzo e disprezzo per i suoi infami assassini», “dimenticando” che la Digos (sotto il suo ministero) di Torino e la procuratrice Pedrotta tentano da mesi di restringere la libertà degli italiani che in Siria hanno fatto lo stesso. Il 25 marzo i giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Torino decideranno in merito alla richiesta di sorveglianza speciale per cinque torinesi, Paolo Andolina, Jacopo Bindi, Davide Grasso, Fabrizio Maniero e Maria Edgarda Marcucci. In Sardegna identica misura è stata chiesta per Pierluigi Luisi Caria: la decisione è prevista per oggi.

All’udienza di lunedì (non essendo un processo, non ci sarà sentenza ma la notifica dell’eventuale «attivazione» della sorveglianza speciale sarà comunicata a domicilio) sarà accompagnata da un presidio di protesta come avviene da mesi. Alla base della richiesta, sta la criminalizzazione politica della lotta all’Isis: secondo la procura i cinque vanno privati della libertà in assenza di reato e di processo (una misura di epoca fascista, direttamente dal Codice Rocco) perché pericolosi per la società. Hanno imparato a sparare e hanno idee politiche che Digos e Procura ritengono un rischio per la comunità. La stessa comunità per cui si battono da anni, per il diritto allo studio, alla casa, in prima fila nel movimento No-Tav.

«La pm ha prodotto nuovi atti, tra cui il mio libro – continua Davide – E il comandante della Digos Carlo Ambra ha copiato e incollato i nostri post su Fb e il discorso letto da Jacopo alla manifestazione di Roma per Ocalan. È tutto basato sulle idee, i libri, le parole. Un contesto degenerato che minaccia chi ancora combatte a Rojava. Pochi giorni fa ho parlato con Lorenzo, ci esprimeva solidarietà. Se la sorveglianza speciale sarà applicata è una minaccia anche per chi combatte ancora giù».

«Ora, dopo la morte di Lorenzo – conclude Dilsoz – voglio vedere con che faccia il giudice potrà condannare dei compagni. Se condannano loro, condannano tutte le Ypg».

* Fonte: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO



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