Nella Basilicata al voto c’è la corsa al petrolio elettorale

by Luca Manes * | 23 Marzo 2019 19:06

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La giunta uscente a sorpresa dice no all’ultima richiesta di estrazione. Ma ne restano in piedi diciassette

Una stazione abbandonata, muri scrostati e segnati dalle intemperie, da un lato parte un binario che non c’è. O meglio, si vede solo il solco, non le rotaie, mai posate. Benvenuti a Matera, per il 2019 Capitale Europea della Cultura, dove un’altra stazione è ancora in costruzione, al costo di tre milioni di euro, ma è solo quella per l’esistente linea a scartamento ridotto fino a Bari. Il vero e utilissimo collegamento con la linea che dalla vicina Ferrandina raggiunge in tempi normali il capoluogo pugliese non è stato mai completato per mancanza di soldi. Chissà se la nuova giunta regionale che uscirà dalle elezioni di domani risolverà uno dei tanti problemi di un angolo di Mezzogiorno che non ha bisogno di grandi opere, ma solo dello stretto necessario per sentirsi parte integrante del paese.

DI QUESTIONI IRRISOLTE a Matera ce ne sono parecchie. «Non abbiamo né un teatro né un cinema, inoltre manca del tutto la raccolta differenziata dei rifiuti», denuncia Giuseppe Miolla, candidato al Consiglio regionale per la coalizione di forze a sinistra del Pd «Basilicata Possibile». Certo, in questi primi mesi da capitale in carica le presenze di turisti, anche stranieri, sono state numerose negli hotel, b&b e ristoranti che sono spuntati come funghi nei Sassi. Tanti gli eventi in programma, sebbene concentrati quasi tutti in città e ben poco nel resto della regione. L’eredità di Matera 2019 rischia quindi di essere poca cosa, vuoi per il cronico deficit di infrastrutture, vuoi per la mancata valorizzazione di una regione che ha borghi e bellezze naturali da far invidia al resto d’Italia.

PER ESEMPIO le Dolomiti lucane, dove in tanti si avventurano a compiere il «volo dell’angelo» su un cavo sospeso nel vuoto che collega i due incantevoli paesetti di Castelmezzano e Pietrapertosa. A una decina di chilometri da questo idillio, però, serbatoi mastodontici, un fitto intrico di tubature di varie dimensioni e una torcia alta 130 metri stravolgono il panorama.
È il nuovo Centro Olio di Tempa Rossa, gestito dalla francese Total, destinato a produrre circa 55mila barili di petrolio al giorno (a cui vanno aggiunti 230mila m³ di gas), processando le ingenti risorse custodite nel sottosuolo della zona circostante. Si mormora di 480 milioni di barili stimati per i sei pozzi attivi, a cui se ne potrebbero aggiungere a breve altri due. L’impianto è stato di fatto completato, ma non può entrare a regime perché non avrebbe rispettato una lista di 109 prescrizioni, dalla mancanza di un adeguato piano di monitoraggio ambientale al piano di emergenza esterno. A ciò si aggiungono anche altre problematiche irrisolte. In primis quella dei nove siti attorno all’impianto che celerebbero nel sottosuolo sostanze inquinanti derivanti dalle prime esplorazioni. Sequestrati nel 2009 e dissequestrati senza alcun intervento nel 2016, i siti sono ancora facilmente individuabili, visto che ampi tratti delle recinzioni hanno resistito agli effetti del tempo. Le bonifiche sono state promesse, anche dall’attuale amministrazione del comune di Corleto Perticara, insieme a Guardia e Gorgoglione destinataria delle royalties petrolifere, ma mai realizzate.

COME SOTTOLINEA il comitato la Voce di Corleto i problemi non finiscono qui, perché alcuni agricoltori della zona lamentano già impatti negativi legati al petrolio sui loro terreni, mentre sono mesi che gli ex lavoratori dell’indotto aspettano una risposta dalle istituzioni e soprattutto dalle imprese in merito alla questione occupazionale.
Tempa Rossa è solo il nuovo, complesso capitolo della storia ultra-decennale del «Texas d’Italia». L’oro nero di cui è ricchissimo il sottosuolo lucano non può non essere uno dei temi caldi con cui si sono dovuti confrontare i quattro candidati a diventare governatore.
Per capire la posizione della destra unita dietro il generale della Guardia di Finanza Vito Bardi, basta guardare l’ennesima foto identitaria che ritrae Matteo Salvini in trasferta in Basilicata. Immancabile felpa con scritta sul petto – Val d’Agri – e casco con il logo del cane a sei zampe dell’Eni. Proprio in Val d’Agri la multinazionale italiana nel 1987 ha scoperto il più grande giacimento in terra ferma d’Europa. La produzione giornaliera si è attestata sugli 80mila barili al giorno, a fronte però di una concessione che prevede la possibilità di arrivare fino a 104mila barili. Negli anni i problemi non sono mancati, tra sversamenti (il più grande nel 2017, con una perdita di 400 tonnellate di petrolio) e altre anomalie che hanno avuto ricadute giudiziarie.

DAL NOVEMBRE DEL 2017, infatti, sono alla sbarra 10 società e 47 persone, tra cui due ex responsabili del distretto meridionale dell’Eni, Ruggero Gheller ed Enrico Trovato, altri dipendenti della compagnia petrolifera, esponenti di spicco dell’Arpab (l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) e alcuni ex dirigenti della regione Basilicata. Per i dipendenti dell’Eni l’accusa è di aver smaltito illecitamente i rifiuti prodotti dall’estrazione del petrolio, con procedure che hanno fatto conseguire all’azienda un ingiusto profitto per milioni di euro. Attraverso la manomissione dei dati sugli sforamenti emissivi del Centro Olio e la falsificazione dei codici Cer dei rifiuti speciali, gli scarti pericolosi non venivano catalogati come tali, ma come quasi innocui. I tecnici dell’Arpab, invece, non avrebbero controllato in maniera rigorosa le emissioni. Il dubbio di molti lucani è che anche i dati sulla qualità dell’acqua dell’enorme invaso creato dalla diga del Pertusillo (quella vicino al Centro Olio di Viggiano) non siano attendibili.

IL PROCESSO, di cui si parla pochissimo a livello nazionale, procede con lentezza anche perché c’è un secondo filone che riguarda Tempa Rossa che è però relativo ai possibili illeciti di alcuni amministratori locali – corruzione e concussione innanzitutto. Il rischio prescrizione, che scatterebbe nel 2021, è dietro l’angolo.
All’ultima udienza c’erano anche numerosi esponenti dell’Osservatorio popolare per la Val d’Agri, che in vista delle elezioni hanno stilato 12 proposte per l’ambiente e la salute.
«Il candidato dei Cinque Stelle Antonio Mattia ci ha scritto per comunicarci che sottoscrive le nostre misure a tutela del territorio e delle popolazioni locali» ci riferisce Isabella Abate dell’Osservatorio. Promesse che poi non verranno mantenute, come verificatosi per esempio nel caso del Tap nella vicina Puglia? Certo è che difficilmente i grillini ripeteranno l’exploit delle elezioni del 4 marzo 2018, quando in Lucania presero un clamoroso 44 per cento.

ANCHE IL CANDIDATO a governatore di Basilicata Possibile, Valerio Tramutoli, ha una posizione nettamente contraria allo sfruttamento petrolifero e alle sue nefaste conseguenze. «Vogliamo una regione dove non solo non si bruciano più i combustibili fossili, ma dove si smette anche di estrarli», ci ha detto a Matera, a margine di uno degli ultimi appuntamenti della campagna elettorale.
Orfano dell’indagato ex governatore Marcello Pittella, il Pd punta su Carlo Trerotola (di presunta antica fede missina…) e non può certo rinnegare decenni di governo a braccetto con i petrolieri, sebbene, il caso Tempa Rossa insegna, stia cercando di adottare una posizione più cerchiobottista. Del tipo avanti con il petrolio ma, almeno in questa fase, cerchiamo di fare le cose il meglio possibile.
Forse in questo senso si può interpretare la linea dura adottata dall’assessore all’Ambiente Francesco Pietrantuono, e di conseguenza dalla giunta regionale uscente, nel negare i permessi per lo sfruttamento del ricco giacimento di Masseria La Rocca, nei pressi di Brindisi di Montagna – per il quale c’è stato un lungo e complesso contenzioso amministrativo. Un provvedimento, quello della regione, per una volta sostenuto anche dal «governo del cambiamento» con una delibera del Consiglio dei ministri datata 12 dicembre 2018.

«Questa è un’anomalia positiva, rispetto alle ben diciassette istanze di ricerca attualmente in corso», ci spiega Antonio Marino, avvocato e attivista di Brindisi, il paese a dieci minuti di macchina da Potenza dove si intendeva trivellare nonostante la vicinanza al parco della Grancia, di grande pregio naturalistico e storico.
L’iter degli altri permessi va però avanti, e la corsa al petrolio lucano resta difficile da fermare.

* Fonte: Luca Manes, IL MANIFESTO[1]

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