by Simone Pieranni * | 1 Marzo 2019 9:26
Era una delle ipotesi in campo: il secondo summit tra Kim Jong-un e Trump si è concluso con un nulla di fatto. Sometimes you have to walk, ha detto Trump con insolita saggezza e rassegnazione: capita di doversene andare, senza aver concluso nulla, capita di non poter dare in pasto all’opinione pubblica ottimismo e frasi roboanti (neanche un tremendous ieri, per dire) e doversene tornare indietro per affrontare un’altra tempesta in arrivo, scagliata da quello che è stato il suo più stretto collaboratore negli ultimi dieci anni, l’avvocato e faccendiere Michael Cohen.
NESSUN ACCORDO FIRMATO ad Hanoi dunque, posizioni ancora distanti sulla denuclearizzazione nordcoreana e sulle sanzioni americane contro Pyongyang. Un nulla di fatto che però non è una rottura ed è già qualcosa.
Trump ha specificato che agli Usa non interessa soltanto il sito di Yongbyon, ma altre zone: al riguardo però Kim ha nicchiato. Devastato dalle rivelazioni del suo ex avvocato, Trump ha dovuto infine accettare di tenere il punto, non potendosi piegare alla firma di un accordo che per gli Usa non avrebbe avuto alcun successo da annoverare. Il presidente americano ha però confermato, a suo modo, cioè basandosi sulla spesa eccessiva, la sospensione delle esercitazioni con la Corea del Sud.
Il fallimento del vertice vietnamita, tutto sommato, finisce per fornire ancora spazio diplomatico a Kim. A livello interno può così rassicurare i militari, un po’ in subbuglio già prima dell’incontro a Singapore perché temono di perdere importanza in caso della fine della minaccia americana; a livello internazionale mantiene la propria postura di apertura e disponibilità a trattare ma alle proprie condizioni. Si tratta di un atteggiamento che coinvolge necessariamente anche Cina e Corea del Sud.
NEI GIORNI CHE HANNO PRECEDUTO il vertice, proprio la location vietnamita era stata interpretata come un piccolo sgarro al grande protettore nordcoreano, ovvero Pechino. Il Vietnam di oggi ha altalenanti rapporti diplomatici con la Cina: ci sono di mezzo le isole contese nel mar cinese meridionale. La scelta di Hanoi come sede, inoltre, è parsa fin da subito una chiara indicazione fornita da Washington e Seul proprio a Pyongyang: un paese che pur governato da un partito comunista si è aperto da tempo al mercato. Una «piccola Cina» che ha buoni rapporti con gli Usa.
La scelta del Vietnam, inoltre, è parsa fin da subito una chiara indicazione fornita da Washington e Seul proprio a Pyongyang: un paese che pur governato da un partito comunista si è aperto da tempo al mercato. Una «piccola Cina» che però ha buoni rapporti con gli Usa. Al riguardo Kim non ha lasciato intendere nulla, ma ormai il percorso intrapreso dal leader coreano è evidente: conclusa la pratica nucleare si è concentrato sulle questioni economiche. Le sanzioni sono il primo ostacolo a una crescita economica che ad ora – e il fatto è stato registrato dagli Stati uniti – è supportata solo dalla Cina, capace di arginare le sanzioni e continuare a tenere in vita il paese.
C’È POI LA COREA DEL SUD: probabilmente Moon Jae-in, il grande artefice di questo storico processo, sarà deluso dall’esito del vertice, ma benché il risultato non sia positivo, Moon potrebbe vedere il bicchiere mezzo pieno: c’è ancora una trattativa in corso e l’ipotesi di un summit che avrebbe rimandato al futuro i nodi più ingarbugliati era nel ventaglio delle ipotesi.
RIMANE UN DUBBIO, più rilevante di altri: non è stata decisa alcuna data futura, anzi dagli Usa è giunta voce che un eventuale terzo incontro non sarà a breve. Il grande sconfitto rimane Trump e la sua debacle rafforza, ancora una volta, la posizione cinese nuovamente al centro di tutta la vicenda: se ci sarà da ricostruire una base per il dialogo Pechino sarà fondamentale. Per Trump invece tutto sembra volgere al peggio: torna a casa senza niente in mano – ma forse è meglio così anziché un accordo clamorosamente favorevole a Kim – e deve prepararsi ad affrontare una tempesta interna che potrebbe essergli fatale.
Nel frattempo il summit vietnamita si ammanta di un allargamento geografico, perché è avvenuto nel momento della crisi tra India e Pakistan, e di un suo risvolto che coinvolge ciò che sta accadendo all’interno dei paesi attori principali. Se infatti Trump si prepara a un rientro negli Usa burrascoso – è praticamente fuggito dal Vietnam saltando un paio di ricevimenti previsti, elemento che di certo non sarà stato gradito dagli amanti dei cerimoniali asiatici – Moon Jae-in e Xi Jinping – seppure in modo diverso – devono affrontare una serie di problematiche. Il presidente sudcoreano è alle prese con proteste e malumori interni dovute alla difficoltà del suo piano economico.
ANALOGAMENTE XI, se è vero che mantiene il proprio potere politico in modo più saldo di tutti i suoi colleghi, deve affrontare un rallentamento economico unito alla querelle sui dazi con gli Usa: si tratta di elementi molto importanti per Pechino, la cui «tenuta» politica dipende moltissimo dall’andamento economico del paese.
* Fonte: Simone Pieranni, IL MANIFESTO[1]
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