Il reddito del controllo sociale: un sussidio di povertà in cambio di lavoro obbligatorio

Il reddito del controllo sociale: un sussidio di povertà in cambio di lavoro obbligatorio

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Workfare all’italiana. Analisi di un provvedimento molto richiesto in Lombardia, come in tutto il Sud, che nega ai giovani under 26 l’indipendenza, controlla la vita matrimoniale dei poveri e introduce in Italia la categoria del lavoro obbligatorio fino a 16 ore a settimana. Nel silenzio sconcertante delle opposizioni. Perché oggi è necessario uscire da rappresentazioni funzionalistiche, risarcitorie, lavoriste o pauperistiche della povertà e rivendicare un diritto sociale fondamentale al reddito di base

Il sussidio di povertà in cambio di lavoro obbligatorio e incentivi alle imprese – definito impropriamente «reddito di cittadinanza» – le pensioni «Quota 100» e quelle di «cittadinanza» sono stati approvati ieri in seconda lettura alla Camera con 291 voti favorevoli, 141 contrari, 14 astenuti, tra cui i deputati LeU. Entro il 29 marzo il «decretone» dovrà terminare il viaggio parlamentare al Senato dove sarà approvato in via definitiva. Già esecutivi, in virtù del decreto del consiglio dei ministri, questi provvedimenti hanno riscosso l’attenzione, rispettivamente, di oltre 600 mila persone nelle prime due settimane di avvio del «reddito». Secondo lo Spi-Cgil riusciranno ad avere la «pensione di cittadinanza» come integrazione al «reddito» circa 120 mila famiglie, un numero molto inferiore sia ai 250 mila nuclei stimati dall’Inps e ai 500 mila ipotizzati dal ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. Per andare in pensione con 38 anni di contributi e 62 anni di età (quota 100) sono state presentate oltre 100 mila domande.

La Camera ha anche recepito l’accordo Governo-Regioni che prevede il rafforzamento dei centri per l’impiego, grazie allo stanziamento di 340 milioni in tre anni, l’assunzione di 3 mila “navigator” precari. Per i 654 precari dell’Anpal Servizi che da mesi chiedono la stabilizzazione, non è stata prevista alcuna risorsa aggiuntiva oltre i 4 milioni di euro già stanziati. Serviranno a stabilizzare solo poche decine di tempi determinati. Resteranno precari e, al momento, la loro prospettiva è quella di attendere entro il 2020 la scadenza dei rispettivi contratti. Poi, forse, saranno rinnovati, oppure no, in un nuovo girone del precariato. E lo scandalo continua: i precari ricollocheranno poveri e disoccupati. Insieme ai “navigator”, i precari di Anpal daranno vita all’ente para-statale con più precari in Italia. E in Europa.

E’ il simbolo più potente del “reddito di precarizzazione”.

La fretta elettorale del governo di arrivare alle Europee con tre misure-chiavi-in-mano indurrà in molti casi a richiamare chi ha fatto già domanda per aggiornarla alla luce delle modifiche apportate dalla Camera. E’ il caso degli stranieri extra-Ue, residenti in Italia da più di 10 anni (gli altri sono esclusi da una norma xenofoba) che dovranno presentare – oltre all’Isee “italiano”- una certificazione della situazione economica rilasciata dal proprio Paese d’origine. Contro questa misura gli avvocati dell’Asgi hanno annunciato ricorsi. Un emendamento approvato alla Camera prevede un tempo massimo di sei mesi per aggiornare la documentazione.

Entro il 31 marzo andrà presentata la domanda per percepire il “reddito di cittadinanza” già a partire da inizio maggio. Secondo la Consulta dei Caf le 600 mila domande fino ad oggi presentate per il “reddito di cittadinanza” appaiono sottostimate rispetto alla platea individuata dal governo. Non è ancora chiaro quante delle 420 mila domande presentate negli uffici dei centri di assistenza fiscale – e le 192 mila presentate alle Poste e online – saranno accettate.

Il meccanismo è complesso, e inedito. Tutto sarà più chiaro dopo il 15 aprile. E’ molto probabile, suggeriscono i Caf, che saranno in molti a vedersi rifiutare la domanda dell’Inps. E, come preventivato dallo stesso governo, molte risorse resteranno non impiegate. E’ stato calcolato fino al 10% della platea potenziale: 4,9 milioni di poveri assoluti per il governo; non più di 2,7 milioni per l’Istat, ma saranno meno.

Secondo l’ufficio parlamentare di bilancio (Upb) solo il 5,5% dei percettori del “reddito di cittadinanza” avrà un beneficio superiore ai 6 mila euro l’anno, mentre un quarto dei beneficiari percepirà meno di mille euro all’anno. Il calcolo è costruito in base alla dichiarazioni Isee del 2017. Si tratta di una precisazione importante, anche se non definitiva, sul reale impatto della misura che, ancora ieri, è stata presentata come “il ritorno della primavera e dei diritti sociali in Italia” (il sottosegretario al lavoro Cominardi, M5S).

Nelle stime dell’Upb i nuclei familiari beneficiari saranno 1,3 milioni, il 37% non avrà obblighi di nessun genere, il 26% sarà inizialmente inserito in un percorso lavorativo verso i centri per l’impiego, il rimanente 37% sarà indirizzato al contratto di inclusione sociale, gestiti dai Comuni. Nelle famiglie indirizzate ai centri impiego, solo il 40% degli individui è stimato essere “attivabile” secondo i criteri stabiliti in un decreto particolarmente esigente e perentorio. Il 46% sarà invece escluso da qualsiasi obbligo lavorativo, il 14% non sarà “immediatamente attivabile”. In seguito, resterà da capire chi – nel 40% stimato – sarà inserito al lavoro, che tipo di lavoro troverà, in quanto tempo nei 18 mesi di durata della risorsa.

I richiedenti del “reddito” sono, al momento, per la maggioranza residenti nelle regioni del Sud e nelle Isole il 55,2% delle richieste. Il 23% vive al Nord e il 21,4% nelle regioni del Centro. La regione con le richieste più alte è, a sorpresa, la Lombardia con 26.492, seguono la Campania con 25.486, la Sicilia con 21.071, il Piemonte con 18.118 e il Lazio con 17.971. Dati che svelano, una volta di più, la falsità e il razzismo della campagna imbastita contro questa misura, giudicata dai pontefici della stampa accorsata e dai custodi dell’opinione pubblica come uno strumento riservato alle plebi meridionali che hanno votato i Cinque Stelle solo per ottenere in cambio soldi gratis. La povertà è una realtà nazionale ed è pervasiva anche nelle regioni del Nord. E’ il risultato di un impoverimento radicale delle classi medie e della proletarizzazione di quelle lavoratrici. A Nord, e a Sud.

I problemi sono altri, e gravi. Il governo dei poveri e la loro rappresentazione. Partiamo dai dati a disposizione. Per i Caf l’82,5 per cento dei richiedenti sono persone tra i 30 e i 67 anni, mentre solo il 10 per cento sono over 67. Il “reddito” non è una misura per giovani e precari. Pensata su base familiare, e non individuale, potrà essere percepito solo dagli over 26 anni. Per chi è al di sotto di questa soglia, non c’è speranza. Saranno considerati a carico dei genitori. E per chi vive da solo ed è indipendente? Potrà prenderlo, certo, ma solo se ha un reddito superiore ai 2840 euro annui e rientra nei parametri della povertà assoluta (9.360 euro di reddito Isee). E’ immaginabile che non siano molti a potersi esporre a queste condizioni. Solo gli under 29 anni che “non studiano e non lavorano” (Neet) in Italia sono oltre 2,1 milioni.

Questo reddito è una misura del controllo sociale. Non solo vincola i giovani ancora di più alla dipendenza familiare, ma obbliga tutto il nucleo familiare a presentare una domanda di disponibilità al lavoro. Una norma approvata dalla Camera prevede la decadenza (non retroattiva) nel caso in cui uno dei membri del nucleo familiare non effettui la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (ad eccezione dei casi di esclusione ed esonero), anche a seguito del primo incontro presso il centro per l’impiego o gli altri servizi ritenuti competenti per il contrasto alla povertà.

Cosa accadrà? Che i genitori obbligheranno i figli a dichiararsi disponibili, e viceversa. Lo dovranno fare per non perdere il diritto al sussidio e non subire le penalità previste.

E’ stato rafforzato il controllo sulla vita affettiva delle persone. E’ caccia ai cosiddetti “finti single”, considerati analoghi ai cosiddetti “furbetti del reddito”, espressione infame usata per stigmatizzare i poveri, estendendo il sospetto che siano tutti approfittatori delle risorse pubbliche, fino a prova contraria. Dovrà essere dimostrata dalla “buona volontà” di essere “persone perbene”, l’espressione è stata usata da Di Maio in questi mesi.

Con questo obiettivo si è introdotto il principio per il quale ai fini del valore Isee del nucleo familiare con figli minorenni, il genitore non convivente nella famiglia e non coniugato con l’altro genitore, che però abbia riconosciuto il figlio, è considerato parte del nucleo familiare del figlio. L’Isee dovrà tenere conto della situazione patrimoniale e reddituale dei genitori, anche se non sposati e non conviventi. Se il genitore si è sposato o avuto figli con un’altra persona, se c’è stato un provvedimento di allontanamento o di esclusione della potestà, o se è dovuto un assegno di mantenimento, l’obbligo previsto dalla modifica non sarà applicato. La proposta prevede anche che nel caso in cui il genitore continui a mantenere la residenza nell’abitazione del nucleo, dopo una qualunque forma di precedente convivenza, si considera comunque parte del nucleo ai fini Isee.

Abbiamo esposto i dettagli della misura, in tutta la loro macchinosità, per evidenziare la pervasività dei controlli immaginati dal governo Lega-Cinque Stelle, e anche per evidenziare la difficoltà di realizzarli. A meno di trasformare i servizi sociali in servizi di polizia della morale individuale e familiare, è difficile immaginare la riuscita di questo meccanismo.

Fino ad ora.

Nel dibattito in aula è tornata ieri una delle osservazioni di solito sollevate contro il “reddito”. Ma se la maggioranza dei richiedenti vive comunque al Sud, e al Sud non c’è lavoro (e nemmeno gli sgravi alle imprese che assumeranno lo creeranno) a cosa serve questo reddito di inserimento al lavoro?

La conclusione è comune a tutti, di destra e di sinistra. E’ una misura assistenziale! Serve a pagare i poveri che restano sul divano!

E’ falso.

E’ chiaro che per i prossimi mesi, per non dire per l’intero prossimo anno, lo spaventoso meccanismo di controllo sociale immaginato dai populisti non funzionerà, se non molto in parte e in maniera esemplare. Per un’eterogenesi dei fini, il reddito sarà modesto e incondizionato. Ma non è questa la volontà del governo. Se resisterà alle elezioni europee, e la crisi dei Cinque Stelle non diventerà ancora più rovinosa di quella attuale, è possibile che l’anno prossimo ci sarà ancora lo stesso esecutivo, disperatamente attaccato al potere. E più ferocemente intenzionato a chiedere ai poveri di darsi da fare.

I soldi non sono gratis nel capitalismo.

Dunque, una volta riscontrata l’assenza di lavoro (come se ce ne fosse bisogno), cosa accadrà ai meridionali che nei prossimi 12-18 mesi non riceveranno un’offerta di lavoro “congrua” (ovvero non inferiore a 858 euro mensili)?

Dovranno emigrare, prima entro i 100 chilometri da casa, poi entro i 250 chilometri, infine ovunque nel territorio nazionale.

Quello che davvero è stato immaginato con questo “reddito” è una mobilità forzosa della forza lavoro da Sud al Nord, e all’interno dei territori messi meglio dal punto di vista della domanda del lavoro. I poveri “attivati”, e disponibili al lavoro, saranno messi in concorrenza tra loro sui posti di lavoro disponibili. Questo è lo scenario ideale per chi ha pensato questo sistema. E’ molto probabile che non funzionerà, perlomeno per la maggioranza dei beneficiari perché questi schemi non funzionano in nessun paese dove sono state adottate le cosiddette “politiche attive del lavoro”.

Avremo una mera erogazione di un sussidio? Può darsi che finirà così, come del resto è oggi – su scala ridotta e con risorse molto inferiori – per il “reddito di inclusione” che sta tanto a cuore a sindacati, associazioni e sinistre variamente declinate.

Ma è necessario allargare questa ottica. Spesso induce a considerazioni pauperistiche o vicine a un’idea risarcitoria e meramente compensativa della povertà: soldi pochi, ma almeno maledetti e subito per i poveri.

Così intesa, la povertà avvalora l’esito delle politiche che vincolano un sussidio all’inserimento a un lavoro qualsiasi: la trappola della povertà. Aspettare il fallimento, del resto prevedibile, non basta per rompere questa trappola e auspicare l’emancipazione da uno stato di bisogno, anche attraverso un reddito di base incondizionato e di autodeterminazione.

Senza un approccio che riconosce il diritto sociale fondamentale a questo reddito, svincolato dalla macchina del controllo sociale, si perde di vista il vero scopo della misura della Lega e dei Cinque Stelle: usare la forza lavoro dei poveri per lavori praticamente gratis per gli enti locali fino a 16 ore a settimana per massimo 18 mesi, tra l’altro rinnovabili dopo un mese di “pausa”.

A cosa serve il “lavoro obbligatorio”? A nascondere la povertà nelle statistiche. Ad aumentare il tasso di occupazione. A diminuire quello di inattività, ad esempio. E a dimostrare che l’attivazione dei poveri funziona sul mercato del lavoro. Anche per questo il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha affermato a fine febbraio 2019: il reddito di cittadinanza, insieme “a quota 100 per la pensione anticipata e all’estensione della flat tax per gli autonomi “porteranno ad un apprezzabile aumento del reddito disponibile aggiustato pro capite, ad una riduzione della diseguaglianza dei redditi e ad un marcato calo della povertà assoluta”.

Questo aspetto, uno dei pochi davvero rilevanti per un giudizio politico stringente della misura, non è stato mai citato nel corso della discussione alla Camera. Eppure, laddove sarà possibile (e non è detto nemmeno che lo sia), sarà messo in pratica. Quando vedremo i “poveri”, in giro per le città indossando casacche colorate, impegnati nei “lavori socialmente utili” a cui saranno obbligati dai centri per l’impiego, i navigator, l’Anpal e tutta la filiera del controllo sociale immaginata dal governo, avremo la prova concreta di cosa parliamo quando parliamo in Italia di “reddito di cittadinanza”. Sarà un “reddito di sudditanza”.

Uno stigma.

L’impreparazione, anche culturale, della politica italiana rispetto alla semplice lettura di un testo di legge è sconcertante. Com’è sconcertante il livello basso delle considerazioni, meramente funzionalistiche rispetto alla realizzazione di norme scarsamente credibili, pasticciate e pensate da chi è stato folgorato dalla propria arroganza idealistica.

Ieri alla Camera, uno dei pochi interventi che è riuscito a focalizzare con una certa precisione il contenuto della misura è stato quello di Renata Polverini, deputata di Forza Italia e già segretaria generale della Ugl: “Con questo provvedimento – ha detto – si torna alle leggi suntuarie, quelle volte a limitare le spese di lusso e che ti dicevano anche come dovevi vestirti, mettendo per di più in piedi un impianto sanzionatorio spaventoso”. Nessuno è sembrato così interessato alla libertà personale, un aspetto decisivo quando si parla di lotta contro la povertà e di inserimento al lavoro. Tanto meno a “sinistra”. Un altro paradosso di questa vicenda. Va riconosciuto a Polverini. Al netto delle considerazioni, avanzate dal suo partito, in questi mesi, a cominciare dalla campagna xenofoba contro gli stranieri e i rom.

* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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