Il disordine liquido globale e la dismissione della democrazia. Intervista a Santiago Alba Rico

by José Miguel Arrugaeta e Orsola Casagrande | 28 Marzo 2019 11:09

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A partire dalla fine delle Primavere arabe e dalla guerra in Siria, stiamo assistendo a una tappa di de-democratizzazione, sostiene il filosofo Santiago Alba Rico, nella quale la sinistra si trova fuori gioco ed è pertanto obbligata a rinnovare i suoi ambiti di analisi geostrategica e di intervento politico locale. La Siria, «dove tutti si danno la mano sotto il tavolo», dove non è possibile tracciare demarcazioni ideologiche o geopolitiche, tranne una: «quella che separa questo vespaio imperialista dal popolo siriano, vittima di tutte le potenze interventiste», è cartina di tornasole dello scontro caotico «tra potenze e sottopotenze imperialiste o protoimperialiste che cercano di trarre vantaggio in questo contesto di liquidità globale». Va dunque constatato che se la stabilità prodotta dalla Guerra Fredda si riproduceva a partire da guerre e dittature, «la nuova instabilità non ha soppresso il Diavolo ma lo ha moltiplicato». Per questo, «l’inizio del XXI secolo è un ritorno all’inizio del secolo XX, con le loro lotte distruttive, ma ora con più attori e armi più pericolose».

 

Redazione Diritti Globali: Nei tuoi ultimi lavori parli di una “tappa di rivendicazioni democratiche” dopo la Guerra Fredda in cui sono inclusi processi e movimenti diversi e identifichi la sua fine nella frustrazione delle Primavere arabe e più specificatamente nel conflitto in Siria, a partire dal quale parli di una tappa di “de-democratizzazione”. Cosa ha lasciato come eredità positiva questa prima tappa di rivendicazioni democratiche e come si manifesta questa tappa di de-democratizzazione?

Santiago Alba Rico: In attesa che la memoria cristallizzi in narrative più o meno performative – e più o meno emancipatrici – e si attivi il filo delle nuove lotte ancora senza data, gli unici aspetti ambiguamente positivi di questa esperienza sconfitta hanno a che fare con la revisione dell’islamismo e con la revisione della sinistra. Dopo le “rivoluzioni arabe” tutto sembra ripetersi (dittature, interventi militari, terrorismo), anche se in un contesto in realtà molto diverso. La sinistra è rimasta fuori gioco ed è obbligata a rinnovare i suoi ambiti di analisi geostrategica e di intervento politico locale. L’islamismo dal canto suo, ha rivelato anch’esso i suoi limiti, soprattutto dopo il crollo dell’utopia materiale dello Stato Islamico, prolungamento deformato del fervore frustrato del 2011. In ogni caso questi cambiamenti potenzialmente positivi sono oggi piuttosto spazi vuoti di cui la de-democratizzazione si approfitta.

 

RDG: Riferendoci a fenomeni concreti di questa tendenza de-democratica, il terrorismo si può considerare come risultato, tra le altre cose, della costruzione di un “nemico” necessario o idoneo da parte dell’Occidente?

SAR: Nulla è mai semplice. Se l’Occidente – sineddoche di un insieme di nazioni e idee in conflitto – potesse costruire dal nulla un nemico, costruirebbe dal nulla un mondo in cui non avesse bisogno di nessun nemico. Lo Stato Islamico non è una creazione dell’Occidente, quanto piuttosto un jolly di molte forze diverse, tutte imperialiste o dittatoriali che lottano per imporsi in Siria e nella regione. Non tutte queste forze sono occidentali: anche il regime siriano ha “costruito” l’Isis e lo stesso hanno fatto Iran o Russia. È funzionale a tutti. Allo stesso tempo l’Isis esiste di fatto e per conto proprio, come organizzazione e utopia alla quale si sono incorporati in maniera volontaria, per diverse ragioni, migliaia di giovani di tutto il mondo, occidentali e non occidentali; ed esiste ugualmente come ideologia e propaganda. Parte di questa ideologia e di questa propaganda consiste nella costruzione di un nemico occidentale tanto caricaturale come quello prodotto dall’islamofobia dei nostri media e dei nostri governi. In realtà stiamo parlando di due discorsi speculari, ciascuno copia e nutrimento dell’altro e di un conflitto multifattoriale nel quale è sempre più difficile tracciare linee chiare. Né lo jihadismo né l’islamismo definiscono blocchi uniformi in nessun senso.

 

RDG: A partire da questo “nemico”, allo stesso tempo immaginario e reale, ampi settori sociali occidentali rifiutano per timore il “diverso”. Come si può contrastare questa tendenza irrazionale che è la base di quello che chiami de-democratizzazione?

SAR: Non sono molto ottimista. Queste tendenze possono solo essere contrastate da istituzioni realmente democratiche – inclusi i mezzi di informazione – che impongano al senso comune generale norme di percezione “politicamente corrette”. Salvo in qualche grande città spagnola (Barcellona o Madrid) le politiche istituzionali alimentano di fatto questa percezione dell’altro – immigrante o musulmano – che successivamente il destro-populismo rampante e i suoi partiti xenofobi europei utilizzano per “lasciar libero” il senso comune generale. Sono le istituzioni quelle che “legano” o “slegano” – decostruiscono o costruiscono – i razzismi e le xenofobie; e per questo è così pericoloso – in questo consisteva il fascismo – che da un pulpito pubblico autorizzato si emettano certi messaggi. In momenti di crisi e insicurezza ci sono cose che tutti vogliamo ascoltare per poter permetterci di pensare cose ingiuste e irrazionali senza smettere di sentirci giusti e razionali. Questo fece Hitler nel 1933. Questo fa oggi Matteo Salvini in Italia. Per questo è così importante difendere la democrazia. E per questo è così importante il ruolo dei mezzi di comunicazione.

 

RDG: Non si può, come sostieni anche tu, liquidare l’attrazione che esercita lo Stato Islamico su molti giovani anche europei, senza provare ad analizzarla. Schematicamente, possiamo dire che c’è stata una trasformazione nella frammentata e diversa galassia islamista. Limitandoci ad al-Qaeda e l’Isis: il secondo propone un modello che fa un passo in più rispetto alla distruzione del nemico (l’America, gli infedeli) proposto da al-Qaeda. L’Isis si preoccupa anche di conquistare un territorio fisico dove creare la sua società alternativa. In altri termini, lo Stato Islamico propone una guerra che non sarà solo ricompensata con una vita dopo la morte, ma propone una vita qui e adesso. Di nuovo molto schematicamente, sembrano aver occupato il campo almeno tre modelli alternativi al capitalismo globalizzato: lo Stato Islamico, il Confederalismo Democratico implementato in Rojava e lo Stato plurinazionale di Bolivia, con il suo accento sulla difesa della terra, la convivenza tra diversi, la negazione delle frontiere definite dagli interessi degli uomini.

SAR: Sullo Stato Plurinazionale boliviano non mi pronuncio perché non ho sufficienti informazioni, anche se l’idea – più o meno ostile o parallela al capitalismo – mi pare giudiziosa quando si tratta di pensare ambiti complessi di convivenza. Rispetto agli altri due modelli, mi pare dubbio che si ergano ad alternativa al capitalismo. Il Confederalismo Democratico di Rojava è un’alternativa allo Stato-Nazione giacobino in un luogo del mondo dove questo Stato, ipertrofico o fallito ha rivelato tutti i suoi mali. È forse l’unica proposta sensata che esiste in Medio Oriente, anche se bisogna dire che la sinistra europea, perplessa di fronte alla deriva degli ultimi anni e bisognosa di un referente “riconoscibile”, tende a idealizzare la proposta del PYD siriano, troppo dipendente dal PKK turco, che – come ricorda Yasmin al-Haj Saleh – non rappresenta la maggioranza kurda in Siria e ha contribuito per questo stesso al settarismo siriano.

In quanto allo Stato Islamico, difficilmente possiamo considerarlo un’alternativa al capitalismo. Rispetto al modello statale – e questa è la sua differenza con al-Qaeda – ha cercato di stabilire una struttura territoriale amministrativa unificata, uno Stato sensu strictu; rispetto alla sua gestione economica può descriversi piuttosto come un esponente del capitalismo mafioso che alimenta la banca internazionale – insieme a un commercio locale retto per élite islamiche burocratiche.

 

RDG: Dici che stiamo vivendo o patendo una tappa di “disordine globale”. Cosa caratterizza questo disordine? Non siamo arrivati ancora a quello che qualcuno definisce come mondo multipolare?

SAR: Se con “mondo multipolare” intendiamo un mondo senza un chiaro egemone, accetto un concetto che si è soliti utilizzare, in ogni caso, per segnalare un progresso e una liberazione. Ma è lì che non concordo. In assenza di una potenza egemonica e di un’alternativa reale, quello che si impone non è più “democrazia” multinazionale (o una ONU più funzionale e decisiva) ma la contesa disordinata tra potenze e sottopotenze imperialiste o protoimperialiste che cercano di trarre vantaggio in questo contesto di liquidità globale. La stabilità della Guerra Fredda si riproduceva a partire da guerre e dittature; la nuova instabilità non ha soppresso il Diavolo ma lo ha moltiplicato. Per questo dico che l’inizio del XXI secolo è un ritorno all’inizio del secolo XX, con le loro lotte distruttive, ma ora con più attori e armi più pericolose.

 

RDG: Parlando di immigrazione, organismi internazionali affermavano l’anno scorso che eravamo di fronte all’esodo più grande dalla Seconda Guerra mondiale. Una parte sostanziale delle società chiamate sviluppate percepiscono questo fenomeno come una minaccia alla loro sicurezza e ai suoi modi di vita e cultura. Si costruiscono muri, il Mediterraneo è diventato una grande fossa comune. In che misura ritieni che i media, e la comunicazione in generale, fomentino questa paura e il rifiuto dell’altro?

SAR: Farò un esempio. Il 90% dei detenuti in Spagna per jihadismo negli ultimi dieci anni è stato messo in libertà senza accuse. La loro detenzione è stata notizia da prima pagina, la loro innocenza no. Un altro dato: in Spagna i musulmani sono solamente il 2% ma gli spagnoli hanno la percezione che siano molti di più, fino a un 16%; in Europa la differenza tra la realtà e la percezione è anche maggiore. Non ho il minimo dubbio che questa differenza ha a che vedere con l’allarme creato dal trattamento dell’informazione, soprattutto dopo la cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015-16. I rifugiati sono stati identificati in maniera omogenea come invasori, fanatici, terroristi e stupratori. Una famosa copertina di “Charlie Hebdo” – un mezzo satirico di “sinistra” – può servire da paradigma: si vedeva il bimbo Alan (il cui cadavere sulla spiaggia scosse per un breve istante le nostre coscienze) che inseguiva una donna tedesca per toccarle il culo. Il titolo suggeriva che, se fosse sopravvissuto, si sarebbe trasformato in un molestatore sessuale di europee.

 

RDG: Curiosamente tutti i rapporti socioeconomici anche dei think-tank dello stesso sistema capitalista, affermano che tanto l’Europa come gli USA hanno bisogno di un alto numero di migranti annuali come forza lavoro per far fronte alla bassa natalità e all’invecchiamento della popolazione. Perché si sta dando questa contraddizione tra la necessità a corto e medio termine e la realtà migratoria attuale?

SAR: Penso che Eduardo Romero lo abbia spiegato molto bene nei suoi libri sull’immigrazione. Si tratta di selezionare la manodopera, di trasformare il mercato del lavoro in un mercato di schiavi. È arrivata e continuerà ad arrivare molta gente, ma non perché è prevalsa la libertà individuale di viaggiare e scegliere la propria vita quanto piuttosto la libertà capitalista di selezionare e gettare i lavoratori a seconda dei contesti produttivi. La maggior parte dei nostri immigrati arrivano in aereo dall’America Latina e non in barconi dall’Africa. Nessuno nega il diritto degli europei a sfruttare gli stranieri poveri; quello che negano gli europei è il diritto degli stranieri poveri a entrare e muoversi liberamente per l’Europa.

 

RDG: Parliamo della sinistra. La sinistra esistente, in tutte le sue versioni, sembra affermarsi sulla base di negazioni, ovvero, è anticapitalista, antimperialista, antiglobalizzazione, anti-cambiamento climatico… Su quali basi e valori la sinistra potrebbe reinventarsi in positivo, come cemento di un mondo alternativo, reale e possibile?

SAR: Se avesse una proposta convincente l’avrebbe già formulata e magari avrebbe avuto anche successo – visto che milioni di persone la stanno aspettando, arrivi da dove arrivi, senza saperlo. La cosa certa è che le proposte in positivo del secolo XX – il socialismo o il comunismo – non possono più articolare un movimento collettivo vincente. Ci può sembrare più o meno ingiusto, ma non dobbiamo perdere troppo tempo nel difendere questi nomi; si tratta di difendere piuttosto i valori che essi veicolavano o nascondevano. Se analizziamo le forze concorrenti alla de-democratizzazione generale, possiamo subito comprovare che la sola alternativa reale alla “rivoluzione permanente” del capitalismo – che si impone senza proposte, liberando istinti e distruggendo vincoli – è l’identità conservatrice destropopulista e – usiamo questa etichetta con cautela – neofascista.

Oggi non siamo in presenza di due rivoluzioni contrapposte, una comunista e una fascista, come novant’anni fa; abbiamo una globalizzazione “rivoluzionaria” molto distruttiva che genera risposte reazionarie, securitarie e identitarie. Da Donald Trump a Matteo Salvini, dal Front National a Viktor Orbán, si è compreso molto bene qual è l’ambito concettuale potenzialmente egemonico: la dignità materiale, la sicurezza, i diritti cittadini ridotti alle proprie frontiere. Sono questi i concetti che dovrebbe rivendicare e per i quali dovrebbe battersi la sinistra, ma associandoli alla democrazia e alla “universalità”. Di fronte alla globalizzazione neoliberale rivoluzionaria dobbiamo essere conservatori, di fronte al destropopulismo dobbiamo difendere la democrazia. Se non sappiamo difendere la sicurezza materiale dei cittadini, diventeremo complici del neoliberalismo, come è accaduto da decenni alla socialdemocrazia europea; se non sappiamo trovare una formula – d’altro canto – per dissociare questa sicurezza materiale dall’identitarismo restrittivo e associarla alla difesa dello Stato di Diritto e la democrazia, finiremo con l’alimentare l’egemonia destropopulista, come già accade, per esempio, nel caso dell’islamofobia. Non è facile, ma si tratta di contendere il concetto di sicurezza e difendere allo stesso tempo i diritti umani e la loro “universalità” concreta. Non credo che ci sia nulla più trasformatore in questi momenti che prendere sul serio la democrazia; cioè, la materialità vantaggiosa del repubblicanesimo politico. Però non si può dire che stiamo vincendo. Al contrario: la cosa più scoraggiante è confermare che, di fronte alla “rivoluzione” neoliberale, le proposte destropopuliste conservatrici ci superano di molto.

 

RDG: La sinistra sembra avere una forte tendenza ad applicare rigidi criteri di quello che potremmo chiamare una “geopolitica volgare” a tutti i conflitti attuali. Qualcosa di simile ai film di Cowboys, di buoni e cattivi. Così, per esempio, la Russia di Vladimir Putin sembrerebbe essere l’erede della URSS anche se non lo è, l’imperialismo ha solo cognome nordamericano, contro la definizione dello stesso Lenin. Bisogna forse ripensare da sinistra concetti e formule?

SAR: Lenin è il prodotto lucido della Prima Guerra mondiale e, se ho ragione e stiamo ritornando al 1914, forse converrebbe leggerlo nuovamente, almeno nelle sue analisi sull’imperialismo. Invece, applichiamo i modelli della Guerra Fredda, che la realtà ha inabilitato in quanto obsoleti, molto più vecchi del 1914. Non ci sono due blocchi contrapposti che decidono tutti gli schieramenti e tutti i conflitti. Quelli che fanno finta per pigrizia di resuscitare il conflitto matrice USA-Russia, si dimenticano di tante cose: che non rappresentano progetti ideologici opposti o simili, che i loro interessi a volte conflittuali si esprimono mediante alleanze incrociate molto contorte e caleidoscopiche e che se il declino statunitense ha aperto un nuovo margine di manovra al nazionalismo imperialista di Putin, lo ha aperto anche ad altri attori, ora relativamente emancipati dagli Stati Uniti. Questa promiscuità si vede più chiaramente in Siria, dove tutti si danno la mano sotto il tavolo. Un esempio: la Turchia dopo aver combattuto per anni il regime dittatoriale siriano (appoggiando almeno passivamente il jihadismo), oggi si avvicina ai suoi alleati russo e iraniano e si oppone in Kurdistan agli statunitensi, mentre l’Arabia Saudita si avvicina a Israele, protetto dalla Russia non meno che dagli Stati Uniti (alleati oggi dell’Europa). È impossibile tracciare linee ideologiche o geopolitiche in Siria, salvo una: quella che separa questo vespaio imperialista dal popolo siriano, vittima di tutte le potenze interventiste.

 

RDG: In questo mondo interconnesso l’informazione è anche strumento democratico ma la quantità rende spesso difficile differenziare l’essenziale dall’accessorio. Dall’altra parte, i tentativi di costruire media alternativi sembrano destinati a terminare con la riproduzione di copie inverse del modello dei grandi monopoli mediatici capitalisti. In che misura questo impedisce la costruzione di un pensiero autonomo a sinistra?

SAR: La sinistra deve contare con la geopolitica, però non è un progetto geopolitico: è un progetto di difesa internazionalista dei diritti sociali, economici e civili, tanto collettivi quanto individuali. Non si può difendere una cosa per gli spagnoli e i venezuelani e una diversa per i siriani. L’esperienza del XX secolo – sotto il sistema dei due blocchi – dovrebbe averci insegnato che ogni volta che si trasforma la rivoluzione in un progetto geopolitico si perde su tutto il terreno: la sinistra governante si sposta a destra e si stalinizza e l’imperialismo vince anche la battaglia geopolitica.

Non dovremmo tornare a provare questa via. Una guerra tra i due imperialismi non può essere “di sinistra”; l’alternativa tra due dittature, nemmeno. E meno ancora se si ricopre di retorica e demagogia. Quasi preferisco il cinismo statunitense, che rivendica i suoi “figli di puttana”, all’ipocrisia sinistrorsa che proclama i suoi figli di puttana “anti-imperialisti, umanisti e socialisti”. Mediaticamente e politicamente la sinistra – la sinistra diciamo “dottrinaria” – ha invertito la propaganda imperialista per riprodurre a grande scala le miserie che tanto denuncia: fakes, manipolazioni, retorica vuota, bugie evidenti. Un esempio: Gheddafi era un tiranno assassino che ha bombardato dall’aria le manifestazioni; era facile far credere che lo avesse fatto perché era realmente un tiranno e un assassino. Di fronte a questa manipolazione parziale delle potenze europee e dei loro media, la sinistra antimperialista negò che Gheddafi fosse un tiranno e un assassino e così non solo mentì ma fu messa fuori gioco e rese più facile la sconfitta dei movimenti popolari del mondo arabo. Lo stesso fece dopo con Bashar al-Assad. È terribile che, a forza di difendere tiranni fuori delle proprie frontiere, alcuni dei governi latinoamericani “progressisti” abbiano finito con l’assomigliare ai tiranni che hanno sostenuto. Penso al Venezuela e adesso al Nicaragua. Il danno che hanno fatto all’idea stessa di sinistra è difficile da riparare.

 

RDG: Non a caso una certa sinistra continua ad applicare questa politica dei “due pesi e due misure” quando si tratta di prendere posizione. L’ultimo esempio è forse il Nicaragua.

SAR: Poco ho da aggiungere, se non che la sinistra che io definisco “stalibana”, contempla il mondo con fosse una partita Real Madrid-Barça, il che, oltreché frivolo, è antipolitico. Un amico che apprezzo molto, ma con una visione molto calcistica del comunismo, mi diceva poco tempo fa sul Nicaragua di Daniel Ortega, «è che a volte i nostri uccidono male». Io gli ho risposto: «È che se uccidono male, non sono i miei». Sparare sui manifestanti pacifici, come in Tunisia, Egitto, Siria o Libia è il limite che non si può sorpassare senza cessare di essere di sinistra.

 

RDG: In un articolo recente segnalavi che al posto del socialismo del XXI secolo «abbiamo propaggini (rigurgiti) inquietanti del XIX secolo». Che intendevi dire?

SAR: Da una parte, abbiamo di nuovo una guerra inter-imperialista tra potenze non ideologiche – come è stata la Prima Guerra mondiale. Dall’altra, abbiamo le forme più infantili di sinistra settaria. Le conseguenze di questo doppio decimononismo le conosciamo: Weimar, il fascismo, lo stalinismo, la distruzione generale. La cosa positiva è che questa sinistra settaria non ha nessuna influenza politica e materiale nel mondo oggi. Le cose negative sono almeno due e molto grandi: insieme al settarismo di sinistra si è persa l’influenza di qualunque progetto collettivo trasformatore in grado di contenere il destropopulismo rampante; e che oggi i mezzi di distruzione sono molto superiori a quelli di novant’anni fa. Non dovremmo mai dimenticare che dall’agosto del 1945 l’umanità stessa è minacciata di morte e che qualunque progetto politico degno di questo nome dovrebbe occuparsi in maniera prioritaria di questa minaccia “generale”, nel senso che colpisce il “genere umano”. Fare le stesse politiche di novant’anni fa dopo Hiroshima è semplicemente suicida.

 

RDG: Sostieni che in questa tappa di “disordine globale” l’Europa è più perdente, ma il concetto di Europa ha varie letture. A che valori e progetti ti riferivi con quella affermazione?

SAR: Volevo dire che in questo nuovo ambito di conflitti antimperialisti con nuovi attori e alleanze molto fluide, il progetto di Unione Europea, nella sua dimensione strettamente geopolitica, è chiaramente perdente (di fronte agli USA, la Russia o la Cina), il che in un certo modo determina la sua implosione. La Brexit è la percezione (a livello di certe élite e di certe forze popolari) del fatto che in questo contesto fluido di disordine globale sono più operative e flessibili le Nazioni delle Unioni. L’Europa è sempre stata una lotta (di classi e di idee) e una guerra (tra élite). La cosa più difendibile del progetto europeo realmente esistente (quello di classe) è il fatto che per settant’anni ha sospeso questa guerra tra élite. Non mi pare cosa da poco.

 

RDG: In effetti l’Europa sembra vivere una crisi esistenziale di progetto per quel che riguarda l’unità e la scala dei valori condivisi. Si potrebbe dire che questa crisi è quella dell’Europa dei grandi poteri economici e della densa burocrazia di Bruxelles o va oltre questo?

SAR: Credo che l’Eurofobia crescente tra le classi popolari dei Paesi europei – alimentata da partiti nazionalisti xenofobi – dimostra che la crisi è soprattutto politica e, se si vuole, culturale. Di fatto, mi pare che siano piuttosto le istituzioni della UE, responsabili in buona misura della crisi, quelle che al tempo stesso contengono la decomposizione. Ma basterebbe un non impossibile cambio di politica in Germania e/o Francia affinché la UE esplodesse da tutti i lati. In assenza di un’Europa alternativa di sinistra non mi pare una situazione desiderabile.

 

RDG: A uno storico risulterebbe difficile distinguere l’Europa attuale da quella del XIX secolo per quel riguarda il ruolo preponderante delle vecchie potenze (Germania, Francia, Russia e Gran Bretagna) e le velocità differenti dell’Europa del sud, centro ed est. Non sarà che il vecchio Stato-Nazione, che in tanti si sono affrettati a seppellire, sta riprendendo nuova forza?

SAR: Pareva che la globalizzazione avesse svuotato di sovranità, in maniera diseguale, gli Stati-Nazioni che si accontentarono solamente – i forti – della gestione poliziesca e delle frontiere; cioè a dire, la repressione e il trattamento degli effetti socialmente distruttivi della globalizzazione. Ora la crisi ristabilisce questo ambito come fonte di sovranità, tra le altre ragioni perché non si è creato nessun altro ambito. Così effettivamente, lo Stato-Nazione è di nuovo una speranza e una minaccia: sovranità contro globalizzazione fallita, gerarchia identitaria contro capitalismo sopravvivente. È anche un’opportunità per la sinistra, che deve rivendicare lo Stato come Stato di Diritto e di diritti, e non come Stato Patrimoniale, e la Nazione come autodeterminazione democratica negoziata e non come comunità storica escludente.

 

RDG: Dicevi poc’anzi, anche in riferimento all’Europa, che la battaglia che si è persa è quella dei limiti materiali dell’immaginazione. Tuttavia, al di là del ruolo delle potenze tradizionali e dei movimenti destropopulisti, ci sono anche nuovi fenomeni che sembrano spingere verso un nuovo protagonismo sociale e politico, comprese le rivendicazioni di nuove sovranità cittadine. Possiamo dire che c’è qualche speranza e che la sinistra ha molti compiti per casa da fare?

SAR: La cosa che non dà molta speranza non è che non ci siano elementi di speranza, quanto piuttosto che questi stanno in retrocessione o in contrazione, dopo una esplosione promettente. La cosa che sconforta è, in un certo senso, una corruzione di quello che in precedenza era confortante: parafrasando un detto classico, la de-democratizzazione è il risultato di una democratizzazione fallita o sconfitta. Questo è quello che vediamo nel mondo arabo, dove lo Stato Islamico si è alimentato dell’impulso democratico interrotto del 2011, o in Europa, dove i giovani ribelli votano FN o Lega, o anche negli stessi Stati Uniti, dove Trump ha vinto le elezioni all’establishment grazie agli stessi voti che dovrebbe reclamare la sinistra. In Spagna, l’enorme illusione del 15M e di Podemos va cedendo il passo a una delusione che può essere colmata da qualunque cosa. Per questo credo che in Spagna dovremo provare a far sì che questi elementi di speranza, in retrocessione ma che resistono nei contesti municipali, durino il tempo sufficiente a permettergli di gettare lì nuove radici, come si dice in botanica. A volte, la cosa più importante è semplicemente durare.

 

RDG: Per concludere, come dice una nota canzone latinoamericana, «Non tutto è perduto, vengo a offrire il mio cuore…»

SAR: «Non tutto è perduto» vuol dire semplicemente che la realtà può smentire le nostre peggiori e più rigorose previsioni, come fa così spesso con le nostre migliori e più infondate speranze. Quanto al cuore, è un muscolo poderoso di inganni e illusioni che ci lega in modo impegnato alla realtà.

 

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Santiago Alba Rico: nato a Madrid, è un filosofo, saggista, scrittore e sceneggiatore. Collabora con numerosi periodici anche digitali, tra cui “Rébelion”, “Cuarto Poder”, “Diagonal”. Vive in Tunisia da circa vent’anni. Ha tradotto il poeta egiziano Naguib Surur e lo scrittore iracheno Mohemmed Jyadir. Ha scritto la sceneggiatura del documentario Baghdad-Rap (del regista Arturo Cisneros, 2005). Il suo ultimo libro è Ser o no ser (un cuerpo) (Seix Barral, 2017).

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photo: Marta Jara ( eldiario.es ) [CC BY-SA 3.0 es (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/es/deed.en)]

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