Dopo la strage, le comunità islamiche in allarme: «In aumento i crimini di odio»
«Da qualche tempo tira una brutta aria intorno a noi, un’aria che sa di islamofobia», denunciavano poco più di un anno fa alcune delle comunità islamiche che vivono in Europa. E certo non esageravano. Pur senza arrivare all’efferatezza del gesto compiuto a Christchurch dal suprematista bianco Brenton Tarrant, attentati alle moschee, aggressioni fisiche e insulti agli islamici che vivono nel Vecchio continente negli ultimi tempi non sono mancati. Molti e diversi i pretesti per compierli, a partire da quelli presentati come una vendetta per gli attentati terroristici che hanno insanguinato le capitali europee, oppure dal timore, infondato ma alimentato ad arte, di una inverosimile sostituzione etnica delle popolazioni locali da parte dei migranti «invasori». Ma anche, più banalmente, dettati dall’ostilità mostrata verso semplici cittadini (soprattutto se donne) colpevoli solo di rivelare attraverso gli abiti che indossano le proprie origini e la propria fede religiosa, e che finiscono col pesare anche nei gesti più normali come la ricerca di un lavoro. Un’indagine su minoranza e discriminazioni realizzata nel 2017 dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali nella Ue, rilevava infatti come il 31% dei musulmani in cerca di un impiego aveva subito discriminazioni nei cinque anni precedenti lo studio.
L’ondata migratoria cominciata nel 2015 è stato uno dei principali motivi che ha alimentato atteggiamenti xenofobi. Il ministero degli Interni tedesco ha reso noti ieri i dati relativi ai reati compiuti nel 2018 contro migranti e rifugiati: in tutto circa 2.000, numero che comprende aggressioni verbali, danni alle proprietà e quelli fisici, fino all’omicidio. In particolare 1.775 atti hanno avuto come obiettivo i rifugiati, 173 i loro alloggi mentre le persone ferite sono state in tutto 315. Questo in un Paese come la Germania dove nel 2018 più di 300 mila rifugiati hanno trovato un lavoro e dove l’integrazione «funziona complessivamente molto bene», come ebbe modo di spiegare ad agosto dell’anno scorso Detlef Scheele, ceo dell’agenzia federale per il lavoro.
Peggio che in Germania va in Gran Bretagna dove il 2018 ha fatto registrare un vero boom dei crimini di odio, saliti alla cifra record di oltre 94 mila (+17% rispetto all’anno precedente) solo tra Inghilterra e Galles. Per restare solo all’ostilità religiosa, i reati sono cresciuti del 42% e nel 52% dei casi hanno riguardato fedeli musulmani.
Uno degli episodi più gravi avviene nel 2017 a Londra quando un 48enne originario di Cardiff, Darren Osborne, si scaglia con un van contro i fedeli che escono dalla moschea di Finsbury Park uccidendo una persona e ferendone altre dieci. Il gesto sarebbe stata una risposta ai tre attentati compiuti nello stesso anno in Gran Bretagna e rivendicati dall’Isis, l’ultimo dei quali al London Bridge. Per la numerosa comunità islamica britannica (tre milioni di persone) è solo il più grave di una lunga serie di atti intimidatori. Stando infatti ai dati forniti da «Tell Mama», una ong che monitora gli atti di islamofobia nel Regno unito, sempre nel 2017 ogni due settimane una moschea è stata presa di mira, complessivamente 100 dal 2014. Attentati ai quali si aggiungono episodi minori ma non per questo meno gravi: «C’è chi versa la birra sulla testa delle donne che indossano il velo, chi danneggia le moschee, chi ci offende per strada» hanno raccontato ai giornali alcuni fedeli dopo l’attentato di Finsbury Park.
Pur senza raggiungere i livelli di violenza registrati in Germania e Gran Bretagna, segnali di insofferenza verso i musulmani si registrano in tutta l’Unione europea. Come segnala sempre l’indagine condotta due anni fa dall’Agenzia per i diritti fondamentali (10.527 persone di religione islamica intervistate i 15 Paesi dell’Ue): il 39% delle persone ascoltate ha dichiarato infatti di essersi sentita discriminata nei cinque anni precedenti a causa della loro origine etnica o migratoria, compreso il colore della pelle o la religione, percezione che aumentano in quanti provengono dall’Africa settentrionale e subsahariana. I musulmani di seconda generazione si sentono discriminati per le loro origini e religione più dei loro genitori, mentre anche l’abbigliamento ha il suo peso, in modo particolare per le donne: il 35% delle donne intervistate contro il 4% degli uomini ha infatti indicato il modo di vestirsi come motivo principale di discriminazione nella ricerca di un lavoro ma anche per ricevere assistenza sanitaria. Nonostante questo, però, il 76% degli intervistati ha dichiarato di provare un forte attaccamento al Paese in cui vive e una grande fiducia nelle istituzioni democratiche.
* Fonte: Carlo Lania, IL MANIFESTO
photo: Mariusmm [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]
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