Caso Diciotti. La maggioranza s’è destra e salva Salvini al Senato

by Andrea Fabozzi * | 21 Marzo 2019 9:15

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Matteo Salvini alza un cartello: «Grazie». Un altro autoritratto, un altro tweet, stavolta pronto a scattare un minuto dopo il risultato ufficiale del voto. Il senato a larghissima maggioranza – 237 contro 61 – ha negato al tribunale dei ministri di Catania la possibilità di procedere contro il titolare dell’interno, accusato di sequestro di persona per aver bloccato per giorni 177 migranti a bordo della nave Diciotti l’agosto scorso. Ma questo «grazie» Salvini deve dirlo soprattutto ai suoi vecchi alleati, Forza Italia e Fratelli d’Italia che aggiungendo i loro voti hanno permesso di raggiungere la maggioranza assoluta. I dieci voti che mancano nel gruppo 5 Stelle lo avrebbero altrimenti costretto a subire il processo, cosa che i suoi avvocati – innanzitutto la ministra Bongiorno, che lo ha accompagnato in aula e seguito l’intervento parola per parola – avendo studiato le motivate argomentazioni dei magistrati, consideravano assai pericolosa.

Forse per questo Salvini è tanto contento, il voto su di lui certifica che al senato ci sono due maggioranze. Su tutto quello che sta a cuore alla Lega i 5 Stelle possono solo aggiungersi alla destra, e devono farlo per restare aggrappati al governo. È già successo sul decreto sicurezza, succederà la prossima settimana sulla legittima difesa. La dissidenza grillina è stata in gran parte femminile: otto donne su dieci voti mancanti. Donne le uniche tre che hanno votato apertamente no alla richiesta di confermare il parere della giunta per le immunità favorevole a Salvini e adesso saranno deferite ai probiviri: Nugnes, Fattori e La Mura (le prime due sono anche intervenute per dichiararlo). Espellendole, il Movimento consegnerebbe ancora di più il senato nelle mani della destra. Gli altri sette assenti grillini (cinque senatrici e due senatori) erano tutti giustificati perché in missione o in congedo. Anche se la votazione è rimasta aperta per sei ore, dalle 13 alle 19. Almeno due (Vittoria Bogo e Matteo Mantero) avevano già votato in dissenso sul decreto sicurezza. E poi la legge costituzionale numero 1 del 1989 stabilisce che un ministro può evitare il processo solo con il sostegno della maggioranza assoluta dell’aula, dunque nel voto di ieri le assenze equivalevano a voti contrari. Nella Lega mancavano solo in due, Bossi che non si è ancora ripreso e la ministra Stefani che ha appena perso il padre. Aggiungendo anche i quattro senatori del gruppo misto che votano stabilmente per il governo, la maggioranza si è fermata così a 157 voti. Quattro sotto la maggioranza assoluta dei componenti. Decisivo quindi l’appoggio della destra e anche di tre senatori del gruppo delle autonomie, tra i quali Casini.

Salvini ha parlato in sua difesa dai banchi della Lega, scelta scenografica (diretta facebook) ma scorretta. La presidente del senato Casellati non avrebbe dovuto consentire, interveniva infatti in quanto ministro accusato di un reato ministeriale. Ha parlato leggendo, dichiarando di commuoversi ma non dandone segno. Ha detto cinque volte di aver fatto quello che ha fatto per i «figli», i suoi e quelli degli altri. E per la «patria» e la «sovranità». Ha detto che essendoci stati casi di sospetti terroristi arrivati via mare – ne ha citati tre, su diverse centinaia di migliaia di sbarcati – «sono evidenti le ragioni di sicurezza e ordine pubblico». Tornato ai banchi del governo è stato raggiunto dopo un po’ dal presidente del Consiglio. Conte aveva annunciato la sua presenza ma è arrivato quando tutti gli interventi di peso erano già terminati. Ha potuto ascoltare il senatore Giarrusso che aveva il compito di giustificare il voto dei 5 Stelle «senza mai abdicare ai nostri principi». Ha sostenuto che ai migranti tenuti dieci giorni a bordo della Diciotti, in fondo, è stato chiesto «un sacrificio minimo e tollerabile».

Il salvataggio di Salvini dal processo, presentato come «vittoria della politica» da leghisti e berlusconiani, è stato in realtà un successo del privato. Privata la piattaforma Rousseau, servita ai 5 Stelle per nascondersi senza possibilità di controllo dietro la presunta volontà degli iscritti. Privati i social con i quali il ministro ha gestito l’affare Diciotti, impartendo ordini senza passare dai canali istituzionali. Privato il «contratto di governo» nel nome del quale la maggioranza ha giustificato tutto questo. Dovendo però alla fine ringraziare l’opposizione di destra se per questa volta è rimasta in piedi.

* Fonte: Andrea Fabozzi, IL MANIFESTO[1]

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