by Mauro Ravarino * | 5 Febbraio 2019 12:14
Ogni giorno una dichiarazione, un tweet, una sparata creano ulteriore confusione sulla questione Tav. Che venga dall’opposizione o dalla maggioranza (l’ultima, «il risparmio di tempo sarà di un minuto e 20 secondi», di Simone Valente, sottosegretario M5s) non importa: l’esito è lo stesso, una bolla incomprensibile. Proviamo a sgonfiarla e a capire quali sono i punti fermi e quelli controversi.
Si parla da trent’anni della Torino-Lione e, al tempo, fu proposta con stime di traffico assolutamente esagerate, se le guardiamo con gli occhi di oggi. Tra il finire degli anni Ottanta e i primi Novanta si faceva un gran parlare di alta velocità e le famiglie del capitalismo italiano, poco prima dello scoppio di Tangentopoli, promettevano investimenti privati che mai si sono concretizzati. La Val di Susa capì che non era oro quel che luccicava e la sigla No Tav comparve presto in questo territorio resistente. Sono passati decenni e ora la tratta contestata fa parte del corridoio del Mediterraneo, dalla Spagna all’Ungheria, e non più della defunta, per quanto ancora citata, Lisbona-Kiev.
Nel 2017, una delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) ha ricalcolato la spesa totale del tratto transfrontaliero della Torino-Lione, ovvero quello condiviso da Italia e Francia – 65 chilometri di cui 57,5 di galleria a doppia canna -, alla luce dell’aumento del costo delle materie prime e dell’inflazione: la cifra è salita a 9,6 miliardi di euro in totale. Le spese sono ripartite in base all’accordo del 30 gennaio 2012 siglato a Roma: il 58% a carico dell’Italia e il 42% della Francia, nonostante il tunnel sia solo per 12,5 chilometri in territorio italiano. Una ripartizione considerata iniqua. Grazie ai contributi previsti dall’Unione europea, i 5,5 miliardi di euro che sborserebbe l’Italia si ridurrebbero a circa 3,5 miliardi.
Il costo complessivo di tutta la tratta da Torino a Lione – comprese, dunque, alla sezione transfrontaliera anche quelle nazionali – non è, invece, così chiaro. Nel 2012, la Corte dei Conti francese lo ha stimato in 26,1 miliardi di euro a tutta la tratta. Una spesa che attualizzata sarebbe sicuramente superiore, dato che nella storia dell’alta velocità italiana i costi sono storicamente ed esponenzialmente lievitati dalla fase di progettazione a quella di realizzazione; anche di sei volte rispetto alle origini.
Sul tema delle penali che l’Italia rischierebbe di pagare in caso di rinuncia all’opera hanno espresso un intervento significativo l’eurodeputata dei Verdi francesi e presidente della Commissione per i trasporti e il turismo Karima Delli e la co-presidente del Partito Verde Europeo Monica Frassoni: «Non c’è alcun pericolo di sanzioni da parte dell’Unione europea. L’Ue aveva deciso di finanziare solo opere preliminari e studi per 813 milioni di euro, in relazione al bilancio pluriannuale 2014-2020, chiaramente insufficienti per coprire tutta l’opera. Non è stata ancora presa alcuna decisione in merito a quali opere andranno i fondi del bilancio 2021-2027. Ciò significa che non sono ancora stati stanziati nuovi fondi e che non ci sono sanzioni da pagare».
I traffici merci su rotaia attraverso il Frejus sono in caduta libera dal 1997, si sono ridotti del 71%. Lo aveva addirittura ammesso l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio riconoscendo come «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Il dibattito sta, però, tralasciando molti degli aspetti ambientali sollevati dal movimento. Pro Natura, nelle 150 ragioni contro la Torino-Lione, ha fatto emergere diverse criticità. Dall’inquinamento atmosferico alla produzione delle polveri sottili nei cantieri, ma, soprattutto, la presenza di amianto, uranio e gas radon nelle aree interessate dalla realizzazione del tunnel di base. D’altronde, in Piemonte, il pericolo amianto è molto sentito: Casale con le sue migliaia di vittime n’è triste memoria. Altri problemi sono l’inquinamento acustico, la compromissione di risorse idriche e lo stoccaggio dello smarino.
Ora, non resta che aspettare l’analisi costi-benefici, a meno che il ministro Toninelli non decida di posticipare ancora una volta la sua pubblicazione.
* Fonte: Mauro Ravarino, IL MANIFESTO[1]
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