Raúl Zibechi: «Dialogo in Venezuela possibile solo se il golpe fallisce»
Tra gli intellettuali latinoamericani, lo scrittore, giornalista e attivista uruguayano Raúl Zibechi è sempre stato tra i più critici nei confronti dei governi progressisti del subcontinente, individuando non nella lotta elettorale per la conquista dello Stato, ma nella capacità di mobilitazione dei settori popolari la via di una vera trasformazione sociale. Ed è proprio in questa mobilitazione dal basso che a suo giudizio – come spiega nell’intervista che ci ha concesso – risiede l’unica reale possibilità di sconfiggere il colpo di stato made in Usa in corso in Venezuela.
Gli Stati Uniti stanno promuovendo il golpe non più sotterraneamente come in passato, ma in maniera diretta e scoperta. È perché non possono permettersi di fallire?
Il primo motivo è la necessità di colpire la Cina, la potenza che sta facendo indietreggiare gli Stati uniti in tutto il mondo. La Cina ha già avuto la meglio in Africa e sta avanzando in maniera importante in Eurasia. Gli Usa non possono perdere pure la disputa per l’America Latina, la regione chiave per la loro dominazione globale. D’altro canto la Cina vanta enormi investimenti in Venezuela e potrebbe perderli se il governo cadesse. La seconda ragione è che, come è noto, il Venezuela è la prima riserva mondiale di petrolio. Per Washington la partita è doppia: controllare il petrolio del paese e al tempo stesso impedire che vada alla Cina, che è ormai un grande importatore di greggio venezuelano. L’ultima ragione è che gli Usa hanno già subìto una doppia sconfitta in Afghanistan e in Medio Oriente. D’altro canto in Venezuela non esistono forze politiche e sociali organizzate in grado di realizzare un golpe. È una differenza importante rispetto ai colpi di stato degli anni ’60 e ’70, quando le forze armate erano il principale soggetto golpista insieme alla borghesia e gli Stati uniti si limitavano ad appoggiare, incoraggiare e collegare tra loro i golpisti. In Venezuela possono riunire un po’ di gente per le strade ma non possono contare su appoggi solidi. Per questo il golpismo può trionfare solo da fuori.
E il riconoscimento di Guaidó da parte dei paesi europei?
Ciò che l’Unione europea sta mostrando è la sua subordinazione agli Stati uniti. Un continente importante come quello europeo sta rivelando tutte le sue debolezze e la sua incapacità di fissare obiettivi propri, indipendenti da quelli delle grandi potenze. Siamo di fronte alla fine politica e diplomatica della Ue.
Come credi che procederà questo golpe multinazionale?
Purtroppo credo che il colpo di stato possa riuscire, a meno che il governo non riesca a mobilitare la popolazione, considerando che le forze armate non sono mai affidabili in nessuna parte del mondo. Il grande problema è che la popolazione è molto provata da anni di crisi economica. La gente spende metà della sua vita a fare la fila per ottenere alimenti. Una guerra civile è possibile. Il governo può contare sull’appoggio di una parte della popolazione, anche se è assai difficile quantificarlo. Ciò che non sappiamo è quanto questo appoggio sia solido, se vi siano centinaia di migliaia di persone disposte a giocarsi la vita per fermare il golpe, come avvenuto nel 2002. Credo che la Russia e la Cina non saranno disposte ad andare fino in fondo. Per cui tutto dipende dalla mobilitazione della società e dalla fedeltà dei militari. Di certo i golpisti hanno tratto insegnamento dalla reazione popolare del 2002, quando la gente scese in massa per le strade facendo fallire il colpo di stato contro Chávez. Per questo la strategia golpista è cambiata, prefiggendosi, in un’ottica a lungo termine, lo scopo di piegare il morale della popolazione attraverso l’economia, in ciò ottenendo un indubbio risultato.
Le iniziative di dialogo hanno ancora una possibilità di successo, considerando che una delle parti, quella di Guaidó, non vuole negoziare?
Possono far guadagnare un po’ tempo. Tuttavia, per quanto siano buone le intenzioni dei mediatori, non vedo come tali iniziative possano convincere il governo Trump a fare marcia indietro. Credo che il dialogo possa esserci solo nel caso in cui il golpe fallisse.
Cosa dovrebbe fare il governo Maduro?
Credo stia facendo tutto quello che può, benché abbia sempre meno margini di azione. Ora tutto consiste nel trincerarsi e resistere. Il problema di Maduro è che ha perso l’iniziativa politica e non sembra in grado di recuperarla. La situazione economica è pessima: l’inflazione, i bassi salari, l’insicurezza nella vita quotidiana hanno provocato un logoramento nella popolazione e una sorta di paralisi nelle alte sfere. In ogni modo, il chavismo ha prodotto in Venezuela, soprattutto tra i settori popolari, un cambiamento politico e culturale che durerà a lungo. Pensiamo a Perón: governò 9 anni, tra il 1946 e il 1955, ma il suo impatto fu tale che, mezzo secolo dopo, la sua esperienza continua ancora a dividere l’Argentina. E il chavismo ha prodotto molti più cambiamenti di Perón.
Quanto è viva l’eredità di Chávez?
Esistono molti problemi associati al chavismo, uno dei quali ha a che fare con il potere statale: in un periodo in cui gli stati sono meno forti delle multinazionali, delle reti sociali e di alcune espressioni della società civile, avere il comando dello stato non significa molto. Ci sono poi problemi più puntuali, come la concentrazione statale dei mezzi di produzione, che riproduce il peggio del vecchio socialismo. Non a caso Marx pensava a una società profondamente decentrata, come si deduce dal suo bilancio sulla Comune di Parigi. Concentrare potere nelle mani dello stato è un errore che si ripete continuamente. Il secondo problema è la corruzione, che nessun processo di cambiamento è riuscito a sconfiggere e sulle cui cause sarebbe necessaria una riflessione più approfondita. Da ultimo, c’è il tema dell’estrattivismo, della dipendenza dal petrolio e dell’incapacità di diversificare l’economia. E ciò rappresenta un disastro sociale, perché il modello estrattivo disarticola le relazioni sociali, al contrario del modello industriale che aveva una funzione aggregante.
* Fonte: Claudia Fanti, IL MANIFESTO
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