by Susanna Ronconi | 14 Febbraio 2019 7:33
La spesa privata per la salute aumenta, in Italia, e così il ruolo della sanità privata, che lungi dall’essere complementare a quella pubblica, ormai è con essa in aperta concorrenza. Con il paradosso (apparente) che proprio le politiche sanitarie, nazionali e ancor più regionali, stanno facilitando questo processo, a causa di liste d’attesa e introduzione dei ticket. Paradosso apparente, spiega in questa intervista Vittorio Agnoletto, medico estremamente critico verso i processi di privatizzazione in atto: perché è una scelta politica quella di promuovere il ridimensionamento del settore pubblico e accrescere il ruolo dei privati, nel momento in cui a livello globale i servizi sanitari sono individuati dal grande capitale finanziario come un ottimo e promettente campo di investimenti per il profitto. In Italia – Paese che vantava fino a dieci anni uno dei migliori sistemi sanitari del mondo – il processo è a macchia di leopardo, tra competenze e titolarità nazionali e regionali, ma indubbiamente in atto. Caso emblematico la Lombardia, dove gran parte dei 14 miliardi spesi annualmente per le cronicità saranno appannaggio di gestori privati, non solo sottraendo risorse al pubblico, ma soprattutto facendolo rinunciare di fatto al ruolo di garante del diritto alla salute dei cittadini.
Redazione Diritti Globali: Sono passati più di dieci anni da quando l’OMS ha definito il nostro il secondo miglior Servizio Sanitario Nazionale (SSN) del mondo. Cos’è successo nel frattempo? Meritiamo ancora questa medaglia?
Vittorio Agnoletto: Se partiamo dalla nostra Costituzione, dovremmo avere le carte in regola. L’articolo 32, tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività e prevede cure gratuite per gli indigenti; l’articolo 3 dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano libertà e uguaglianza dei cittadini e impediscono lo sviluppo della persona umana. Quello che è interessante è che l’articolo 32 parla di un diritto dell’individuo, non del cittadino, cioè la salute è un diritto di ogni essere umano, e questo toglie di mezzo tutte le questioni di cittadinanza, nazionalità, se sei italiano o immigrato. L’intreccio tra i due articoli è chiaro, ed è proprio questo intreccio che sta alla base della legge di riforma 833 del 1978 che istituisce il SSN universale. È quello il SSN che l’OMS ha premiato dieci anni fa, non quello che stiamo vedendo ora. Oggi abbiamo un sistema a due velocità, che discrimina l’accesso alle cure a seconda delle possibilità economiche delle persone. È un processo recente ma in fortissima crescita in questi ultimi anni.
RDG: Quali sono i fattori che hanno maggiormente inciso in questo processo a discapito dell’accesso universale alle cure?
VA: Primo, l’inserimento dei ticket. Il SSN dovrebbe essere del tutto gratuito, è pagato dalla fiscalità generale, secondo una progressività e una proporzionalità in base ai redditi. I ticket non hanno senso, ogni cittadino ha già pagato per la sanità. Secondo, l’ingresso fortissimo del privato nel SSN, sia con la convenzione che con l’accreditamento, in un quadro nazionale che, sulle regole, lascia grande spazio a ogni Regione. Il pubblico rimborsa il privato convenzionato per i suoi servizi, ma è evidente che il privato sceglie i settori più convenienti e lucrativi; non trovi il privato che investe per esempio nel pronto soccorso, investe invece e molto nelle patologie croniche, che garantiscono piani pluriennali e bilanci sicuri: ecco perché il privato entra massicciamente nelle RSA, Residenze Sanitarie Assistenziali, per esempio. Ed è un privato sempre meno complementare e sempre più sostitutivo del pubblico. Terzo, la questione delle visite intramoenia. Introdotte ai tempi di Rosy Bindi ministro della Salute, allora avevano lo scopo di trattenere nel pubblico i medici attratti dal profitto privato, consentendo loro di svolgere dentro la struttura pubblica una parte di attività privata, lasciando una quota parte del compenso alla struttura stessa. Queste attività private dovevano essere, nelle intenzioni iniziali, una parte limitatissima, destinata a quei cittadini che vogliono una prestazione aggiuntiva, o vogliono scegliere quello specifico medico. Invece, è diventata una attività concorrenziale, dilata a dismisura, anche perché gli ospedali spesso non pongono limiti. Il fatto è che gli ospedali pubblici sono incentivati a favorire queste prestazioni private, ci guadagnano, perché una quota parte va al personale infermieristico disponibile a essere presente durante le visite private, un’altra parte viene, in alcuni casi, ripartita anche tra gli amministrativi e una percentuale non indifferente resta nelle casse dell’ospedale. Il ticket che pagano i cittadini per una prestazione pubblica, invece, non va all’ospedale ma alla Regione che poi ridistribuisce le risorse. Così finisce che nessuno ha più interesse a incentivare la prestazione pubblica versus l’intramoenia, perché si tratta di soldi freschi nelle casse dell’ospedale al di fuori dei canali regionali. Con l’effetto che questo processo diventa anche una delle ragioni delle liste d’attesa, perché le visite intramoenia non avvengono a fine turno, ma anche durante la giornata.
RDG: Sui processi di privatizzazione, oltre al nodo delle liste d’attesa, la prima misura che hai citato, i ticket, stanno avendo un ruolo importante: i costi sono concorrenziali, il privato spesso offre prestazioni non solo più tempestive ma anche a minor costo, è così?
VA: Sì, in molti casi i costi nel settore privato sono pari o inferiori ai ticket nel pubblico, e questo accade soprattutto per prestazioni diagnostiche di massa, come le mammografie, per esempio. Se il privato costa 40 e mi fa aspettare tre settimane e il ticket costa 41 e devo aspettare tre mesi, è ovvio che vado dal privato. E poi magari ci resto, perché se servono ulteriori accertamenti il privato me li offre sul momento e con poca attesa, se devo tornare nel pubblico devo rifare tutto l’iter e chissà con che tempi: il medico di base, poi lo specialista, poi una nuova richiesta di esami… Peccato che quel nuovo accertamento costerà di più di quello che spenderesti con un ticket, ma ormai sei dentro il sistema privato.
RDG: Una scelta autolesionistica da parte del pubblico e anche poco razionale. La ratio è di tipo politico, allora, nello stabilire ticket elevati per prestazioni di massa? Si può parlare di una esplicita intenzionalità di spingere per la privatizzazione?
VA: Sono scelte politiche che avvengono a livello regionale, c’entra il peso che localmente la sanità privata ha rispetto ai decisori politici. Peraltro, qualche anno fa, sono stati resi noti da Wikileaks dei documenti di grandi holding internazionali delle assicurazioni in cui si sottolineava come la sanità fosse in prospettiva un campo strategico di investimento, a patto che gli Stati e le chiese restringessero il loro ruolo nel settore. Sono soprattutto i politici regionali ad avere intrecci con le potenti lobby della sanità privata, e scegliere di tenere alti i ticket proprio su esami diagnostici di massa significa favorire il privato, farlo diventare competitivo. A proposito di funzionalità, va detto che un sistema privatizzato costa indubbiamente di più, lo dimostrano numerose ricerche realizzate sia a livello nazionale che europeo e confermate da studi svolti negli USA. C’è una forbice, con un aumento della spesa privata e un taglio di quella pubblica; già il governo Gentiloni aveva deciso che nel 2021 la percentuale della spesa sanitaria sul PIL dovesse attestarsi sul 6,3%, dunque meno di quella attuale che è 6,6%, e molto al di sotto del valore che l’OMS indica come necessario a garantire i servizi necessari. Non sono scelte funzionali, sono scelte politiche, la strada è quella di spostare sul privato una sanità che diventata fonte di profitto.
RDG: Queste scelte hanno una correlazione significativa secondo te con le politiche di austerità post crisi del 2008, quando tagli e smantellamento del welfare hanno preso una più decisa velocità?
VA: In sanità questo processo è partito molto prima, negli anni Novanta del secolo scorso, come processo di privatizzazione, ma anche prima, quando le USL sono state trasformate in ASL, in aziende; per le prime il bilancio dipendeva solo dalla fiscalità generale, per le ASL invece si tratta di avere bilanci in pari. Gli obiettivi che le ASL assegnano ai direttori sono solo parzialmente sulla qualità, sono prioritariamente relativi al fattore economico: un direttore che non lotta contro le liste d’attesa ma tiene il bilancio in pari piacerà sempre al politico regionale. Il finanziamento del privato, poi, ha aperto uno spazio enorme di corruzione e falsificazione, il privato tende ad andare laddove le prestazioni sono più remunerative, fino all’estremo – lo leggiamo poi sui giornali quando qualcuno finisce in tribunale – di realizzare certi interventi chirurgici anche se non necessari o adeguati. I controlli sono poco incisivi, ci sono a livello regionale, ma per esempio in Lombardia quando parte un controllo lo sanno tutti due giorni prima… Il pubblico in realtà sta dando mano libera ai privati. La questione è complicata dal fatto che i vertici della sanità regionale sono di nomina strettamente politica, direttori generali che poi scelgono direttori sanitari e amministrativi, c’è una catena di lealtà politica che non va certo a favore dell’efficienza.
RDG: I 21 sistemi sanitari regionali seguono tutti le medesime tendenze alla privatizzazione? O ci sono modelli differenziati? Tu hai lavorato in modo particolare a una analisi critica e a una opposizione al modello lombardo di privatizzazione, credi che sia un apripista destinato a diventare tendenza nazionale?
VA: I vincoli politici sono simili in tutte le regioni, a prescindere dalle giunte. La sanità è il settore portante dei bilanci regionali; parlando per la Lombardia, su un bilancio annuale di circa 23 miliardi, 18 vanno alla sanità, e ormai quasi 14 sono destinati alle persone con patologie croniche. I modelli e i livelli di privatizzazione invece cambiano a livello regionale, credo che su questo i processi più avanzati siano in Lombardia, Sicilia, Lazio. Certo, il modello lombardo non è generalizzato, a oggi, ma per quanto concerne i malati cronici fa tendenza e sta diventando il cavallo di battaglia per esempio di Forza Italia o dell’ex ministra Beatrice Lorenzin. La peculiarità è che il modello lombardo non solo privatizza, ma toglie la responsabilità della gestione della salute all’ente pubblico, ridisegna proprio l’intero sistema: la Regione distribuisce assegni a dei gestori privati, tra questi vi sono anche fondi sorretti da fonti finanziarie internazionali, che reclutano i cittadini con contratti di natura privatistica, che non si possono rescindere fino al 31 dicembre di ogni anno, e da quel momento il cittadino dipende da quel gestore privato, che sia fondo sanitario o altro ente. Potrà farsi visitare solo nelle strutture che hanno un accordo con il “suo” gestore, perdendo il diritto a essere visitato ovunque da qualsiasi struttura sanitaria pubblica, e sarà vincolato a questi accordi privatistici. Qui è lo Stato che rinuncia, che esce di scena. Cosa succederà? Che la qualità delle cure scenderà, perché si cercherà di fare profitto sulle quote concordate tra Regione e gestore, e poi la selezione delle prestazioni garantite sarà a cura del gestore, e non tutte lo saranno. Pensare poi a vertenze a favore dei diritti dei cittadini sarà più difficile senza un pubblico garante o anche una chiara controparte pubblica.
RDG: È un sistema che, in prima battuta sembra complicato e difficile da capire. Informare e sensibilizzare i cittadini mi sembra una sfida non da poco, per non dire creare un movimento critico…
VA: È quasi impossibile capire tutto di questi dispositivi. Ho fatto centinaia di incontri con i cittadini, è complicatissimo spiegare. È anche più complicato se si considera che, in ogni caso, se la gestione della sanità è regionale, questa riforma avviene pur sempre in un quadro nazionale del quale la Giunta lombarda deve tenere conto, non può improvvisamente azzerare il SSN e cancellare il contratto collettivo nazionale dei medici e tantomeno può obbligarli a lavorare con gestori privati. Credo comunque che ci siano profili incostituzionali in tutto questo, come Medicina Democratica, abbiamo fatto ricorso al TAR che ne discuterà in novembre. Intanto, in attesa del TAR, per ora c’è la possibilità ma non l’obbligo, né per i medici né per i malati cronici, di scegliersi il proprio gestore. I cittadini lombardi a oggi non sembrano convinti, infatti su 3 milioni di lettere inviate loro dalla Regione solo meno del 10% ha risposto alla proposta di aderire a un gestore e nella città metropolitana di Milano i medici di medicina generale hanno aderito solo per il 25% alle proposte regionali. Un altro aspetto critico è che è in atto un processo per cui i medici di base si stanno organizzando, trasformando le loro cooperative in società, per diventare anche loro gestori, stante che può essere proficuo. Tra i gestori, oltre ai fondi privati, inclusi quelli che hanno riferimenti finanziari internazionali, ad esempio con sede a Dubai, avremo anche le società dei medici, che saranno avvantaggiate perché potranno reclutare i cittadini tra i loro pazienti. Anche qui vedo aspetti di incostituzionalità, perché il medico del servizio pubblico finisce con fare profitto attraverso la sua società di gestione, cioè medici del SSN diventano imprenditori privati. Questo sta creando problemi ai sindacati dei medici, che in prima battuta si sono opposti alla riforma, anche con ricorsi di incostituzionalità e a difesa della professione medica, ma adesso fanno i conti con una parte dei loro iscritti che sta facendo marcia indietro.
RDG: Proviamo a leggere tutto questo con gli occhi del cittadino. Cosa perde e cosa guadagna? Non solo economicamente, ma in termini di salute, prevenzione, cura, accesso alle cure, insomma di diritto alla salute
VA: Alcune fonti riportano il dato di 11 milioni di persone che non si curano, intendendo che rinunciano a curarsi per una patologia, e questo fenomeno riguarda soprattutto l’odontoiatria e la fisioterapia. Rinunciare alla fisioterapia è grave, non solo per la persona interessata, ma anche per la famiglia che se ne prende cura, con carichi maggiori. Lo stesso accade se si rinuncia alle cure dentistiche, si tratta di patologie che portano con sé conseguenze sull’alimentazione e altri problemi di salute correlati. Dunque, una situazione in cui gli effetti negativi sono a cascata. In questo quadro, la spesa sanitaria privata pagata dai cittadini si è attestata attorno al 30% della spesa sanitaria totale, perché i cittadini non riescono a curarsi, prima di tutto a causa delle liste d’attesa; in Lombardia per alcune visite l’attesa è di vari mesi, talvolta oltre un anno. Chi ha qualche disponibilità va verso il privato e poi finisce con il rimanerci. Questo il meccanismo di fondo. Però va detto che la penetrazione del privato avviene anche con altre modalità. Io ritengo catastrofico, per esempio, sotto questo profilo l’inserimento delle assicurazioni private nei contratti collettivi nazionali di lavoro. Catastrofico, perché stiamo combattendo per difendere la sanità pubblica e con i contratti milioni di persone vengono spostate dal pubblico al privato! Tornando indietro di 40 anni; infatti, così si torna alla logica delle mutue, prima della legge 833, quando l’assistenza sanitaria era agganciata al posto di lavoro. Tocca ricordare che il primo contratto nazionale che ha compiuto questo passo è quello dei metalmeccanici, FIOM inclusa, che ora sta cercando di ampliare la copertura assicurativa anche ai famigliari del lavoratore. Poi via via hanno seguito l’esempio altre categorie, i ferrovieri per esempio, e altri. C’è da dire inoltre che l’offerta privata non riguarda interventi complementari alla sanità pubblica, perché se vai a vedere vengono offerte tutte le prestazioni, e dunque si prospetta una concorrenza, non una complementarietà al SSN. Nella CGIL, chi non ha seguito questa strada è non a caso la Funzione Pubblica, che ha al suo interno i lavoratori della sanità.
RDG: Sono già osservabili ricadute di questi processi di privatizzazione e del ridimensionamento del SSN sulla salute degli italiani?
VA: Nella graduatoria mondiale sull’attesa di vita siamo ancora al secondo posto, sebbene per la prima volta sia sta osservata una diminuzione. L’OCSE misura due indicatori, uno è appunto l’aspettativa di vita, l’altro è la qualità della vita dopo i 65 anni: qui negli ultimi anni siamo letteralmente precipitati nella classifica. Ma questo porterà con sé anche un calo nell’attesa di vita, se aumentano le patologie e diminuisce la possibilità di curarsi sarà inevitabile. Detto altrimenti: già adesso gli italiani cominciano a vivere peggio, dopo vivranno anche di meno.
RDG: Si può pensare di agire per bloccare questa tendenza? O anche solo per moderarla? Per come l’hai descritta, appare come uno dei tanti processi globali rispetto ai quali, anche volendo, Stati nazionali e soprattutto movimenti per il diritto alla salute misurano la loro impotenza. E così o possiamo individuare dei terreni di lavoro?
VA: Sarebbe necessario un grande movimento basato sull’alleanza tra i lavoratori e i cittadini, gli utenti del SSN. Ma è quello che io non vedo e penso sia uno dei grandi limiti del sindacato oggi. Io lavoro all’INPS e ogni giorno ricevo mail dal sindacato: sono mail che parlano di tutto, dagli orari di lavoro ai buoni mensa, ma non leggo mail in cui si metta il rapporto con l’utenza al centro, e all’INPS l’utenza è fatta di gente invalida, con mille problemi. In termini di sostenibilità della spesa e anche di qualità professionale il SSN può assolutamente essere competitivo con il privato, ma vanno fatte delle scelte di investimento. Per esempio, la medicina preventiva: si investe pochissimo, a fronte del fatto che le patologie del terzo millennio nei Paesi industrializzati sono quelle cardiache o quelle legate all’alimentazione, su cui investendo in campagne serie di prevenzione si potrebbe incidere significativamente, arrivando anche a limitare i costi delle cure. È chiaro che la prevenzione non interessa al privato, non si fa profitto sulla prevenzione, la prevenzione può farla efficacemente solo un sistema pubblico: e così si metterebbero a posto i conti dello Stato, pensando al risparmio che la prevenzione promuove. Dove è scritto che la medicina è solo curativa? Eppure, se vedi il corso di laurea in medicina, non trovi esami di medicina preventiva se non in poche specializzazioni! Non c’è la logica per cui il primo obiettivo di un sistema sanitario è tenere le persone in salute e poi curarle se si ammalano, le priorità, purtroppo, sono altre.
Invece sta crescendo il dibattito sulla cosiddetta medicina personalizzata: a Milano l’area ex Expo dovrebbe diventare proprio il centro europeo della medicina personalizzata e degli studi sul genoma, attraendo anche con regimi fiscali favorevoli le grandi multinazionali del farmaco e della ricerca, nonché l’IBM che è l’azienda (privata) che possiede il più grande archivio di dati sanitari personali del mondo, e si appresta ad avere tutti quelli italiani. Bene, questa è l’estremizzazione dell’approccio solo curativo della medicina: ci sono 11 milioni di persone che non accedono alle cure di base e si investono cifre enormi nella ricerca sul genoma che eventualmente produrrà farmaci per curare pochi cittadini abbienti. Le scoperte in medicina e le nuove tecnologie sono davvero progressive solo se è prevedibile un loro ampio utilizzo verso l’insieme della popolazione, se no si tratta semplicemente di medicina di classe.
Sul piano politico manca oggi una risposta collettiva, perché il cittadino sui temi della salute è solo, fronteggia l’emergenza e la risposta è individuale. È per questo che dico che il ruolo del sindacato è una occasione per ora persa: il terreno d’azione dovrebbe essere quello della difesa della salute, quello dei diritti dei cittadini, oltre e insieme a quelli degli occupati. È quello che con le limitate forze a disposizione cerco di fare con la mia trasmissione a Radio Popolare e con l’organizzazione di centinaia di incontri in Lombardia per bloccare le delibere regionali che puntano a privatizzare l’assistenza sanitaria ai malati cronici.
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Vittorio Agnoletto: è medico del lavoro, lavora nelle commissioni per l’invalidità civile dell’INPS. È professore all’Università di Milano dove insegna “Globalizzazione e politiche della salute” ed è autore e co-conduttore di “37e2”, la trasmissione sulla salute che va in onda tutti i giovedì su Radio Popolare. È membro del Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale. Tra le sue pubblicazioni la più recente analizza criticamente il modello lombardo di riforma del servizio sanitario regionale: Sanità in salute? Il libro bianco della sanità lombarda (con Alessandro Braga, Edizioni Radio Popolare, 2017).
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Abbiamo ricevuto in data 21 febbraio 2019 da IBM una richiesta di smentita, in relazione all’intervista[1] soprastante, effettuata dalla redazione del “Rapporto sui diritti globali” al dott. Vittorio Agnoletto, in un passaggio della quale veniva citata IBM.
Come redazione e sito web del “Rapporto Diritti Globali” riteniamo doveroso pubblicare qui sotto la nota al riguardo di IBM, così come la risposta del dott. Agnoletto.
SMENTITA
Con riferimento all’articolo da Voi pubblicato, IBM smentisce categoricamente quanto ivi riportato, con particolare riferimento alla circostanza che IBM si appresterebbe ad avere tutti i dati sanitari italiani. Il testo pubblicato è lesivo nei confronti di IBM, oltre che diffamatorio. Vi invitiamo, quindi, secondo le norme vigenti, a dar seguito alla nostra smentita con pari evidenza sulla Vostra testata rispetto al già menzionato articolo. Ci riserviamo in ogni caso di agire nei confronti del Dott. Agnoletto a tutela di IBM.
Maurizio Decollanz
RISPOSTA DI VITTORIO AGNOLETTO
La lettera del capo della comunicazione di IBM Italia, Maurizio Decollanz, mi sorprende e mi lascia veramente incredulo.
La vicenda IBM/dati sanitari e del suo progetto denominato Watson Health è stata sollevata per la prima volta il 15 febbraio 2017 su il fatto quotidiano da Gianni Barbacetto; il giorno dopo sullo stesso quotidiano usciva la lettera di Paola Piacentini, delle relazioni esterne IBM, che sotto il titolo “Diritto di replica” garantiva che l’IBM avrebbe rispettato “le normative sulla protezione dei dati della privacy”, senza negare in alcun modo quanto affermato da Barbacetto il giorno prima, anzi ribadendo la volontà di IBM di costruire il centro di eccellenza del quale si parlava nell’articolo già citato.
Il 2 marzo affronto tutta la vicenda durante “37e2”, la trasmissione dedicata alla salute che conduco su Radio Popolare tutti i giovedì alle 10,35: intervistiamo Barbacetto e avremmo voluto intervistare anche i rappresentanti dell’IBM, ma proprio Maurizio Decollanz declina il nostro invito scrivendo: “[…] la posizione di IBM Italia è stata ben esplicitata nella lettera che il giorno dopo molto gentilmente il Fatto ha pubblicato […]” e aggiunge “[…] Ti prego di portare i miei saluti a Vittorio Agnoletto con cui abbiamo condiviso alcune trasmissioni su Odeon (io conducevo e lui era ospite).” Ovviamente, come da deontologia professionale, in trasmissione abbiamo letto la lettera scritta a nome di IBM da Paola Piacentini.
Anche in quella occasione non solo non viene in alcun modo messo in dubbio quanto scritto su il fatto quotidiano e quanto trasmesso a Radio Popolare, né vi è alcun accenno a un contenuto diffamatorio e lesivo, ma anzi il responsabile della comunicazione IBM Italia mi manda anche i saluti!
Non ho elementi per capire quale strategia aziendale, quali obiettivi o quali timori abbiano ispirato la lettera di Maurizio Decollanz, posso solo invitare IBM nel caso avesse rinunciato al progetto Watson Health e non sia più interessata ai dati sanitari dei cittadini italiani a comunicarcelo. Ne saremmo solo contenti.
Vittorio Agnoletto
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2019/02/medicina-di-classe-e-spinte-alla-privatizzazione-intervista-a-vittorio-agnoletto/
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