La sicurezza e il controllo delle “classi pericolose”. Intervista a Livio Pepino

La sicurezza e il controllo delle “classi pericolose”. Intervista a Livio Pepino

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Il governo securitario delle città non è semplicemente un insieme di sanzioni in più contro soggetti fragili descritti come pericolosi: è una tappa di un processo complesso che cambia il volto del governo della società, e che sta via via disegnando un sistema di garanzie variabili, e cambiando lo stesso diritto. Il decreto Minniti e i successivi atti del nuovo governo giallo-verde mettono in scena questo passaggio, dallo “Stato sociale allo Stato penale”. Delle implicazioni e degli scenari di questo momento cruciale parliamo con Livio Pepino, giurista, ex magistrato, impegnato nei movimenti per la democrazia dal basso e per la difesa dell’ambiente. Tra le sue numerose pubblicazioni, Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli, in cui analizza la percezione sociale della paura del “diverso” e il suo uso politico.

 

Redazione Diritti Globali: Il governo securitario delle città sotto il profilo normativo data dai primi anni 2000, dal 2009 i “Pacchetti sicurezza” hanno conferito ai sindaci nuovi poteri, è un processo che non si è mai interrotto, sotto diversi governi. Nel 2011 la Corte Costituzionale ha cercato di mettere un confine, limitando le ordinanze nella durata e ancorandole al carattere di urgenza. Il decreto Minniti è un passaggio che cambia significativamente poteri e modalità di intervento dei sindaci?

Livio Pepino: Il salto, sia pratico che culturale, è netto. Il decreto, infatti, fornisce, dei riferimenti normativi che prima non c’erano e contribuisce a trasformare il sindaco in autorità preposta in modo diretto a sicurezza e ordine pubblico.

Mi limito ad alcuni esempi: viene introdotto il concetto di “sicurezza integrata” (intesa come l’insieme degli interventi dello Stato-enti locali), «al fine di concorrere alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza»; si istituisce un comitato, copresieduto dal prefetto e dal sindaco metropolitano, per l’analisi, la valutazione e il confronto sulle tematiche di sicurezza urbana relative al territorio della città metropolitana; si fa riferimento a «patti sottoscritti tra il prefetto e il sindaco per prevenzione e contrasto dei fenomeni di criminalità diffusa e predatoria, promozione e tutela della legalità, anche mediante mirate iniziative di dissuasione di ogni forma di condotta illecita, compresi l’occupazione arbitraria di immobili e lo smercio di beni contraffatti o falsificati, nonché la prevenzione di altri fenomeni che comunque comportino turbativa del libero utilizzo degli spazi pubblici», eccetera. Ciò potrebbe sembrare, a prima vista, un semplice (e magari opportuno) coordinamento tra le competenze dei vari attori delle politiche territoriali, posto che nel decreto – grazie soprattutto alle integrazioni intervenute in sede di conversione in legge – si parla anche di interventi di carattere sociale, di lotta all’emarginazione, di riqualificazione delle aree degradate e persino di “benessere” dei cittadini. Ma così non è. Un passaggio del decreto lo dimostra in modo scolastico: mentre per l’installazione di sistemi di videosorveglianza si prevede una specifica autorizzazione di spesa (articolo 5), il successivo articolo 17 cala la scure su ogni possibile intervento migliorativo delle condizioni di vita dei cittadini disponendo che «dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» e che «le amministrazioni interessate provvedono con l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente». Superfluo dire che, nelle attuali condizioni economiche degli enti locali, la mancata previsione di risorse ad hoc significa impossibilità di realizzare gli interventi sociali previsti (che appaiono come un richiamo ipocrita, destinato, forse, a tranquillizzare una cattiva coscienza).

Le conseguenze sono chiare. Fino a ieri, il titolare esclusivo delle politiche di sicurezza e ordine pubblico era lo Stato centrale, che le gestiva attraverso una catena formata da ministro dell’Interno, prefetti, questori e forze di polizia. Il sindaco aveva competenze diverse e anche la polizia urbana, a differenza che in altre realtà europee, aveva compiti limitati in settori quali traffico, mercati e simili. Oggi, all’esito di un processo culminato col decreto Minniti (e prossimo a essere ulteriormente incrementato) il sindaco è diventato uno dei protagonisti di quelle politiche nel proprio territorio e ciò determina, tra l’altro, il venir meno di una dialettica tra Amministrazione centrale ed enti locali un tempo proficua e un surplus di repressione e di interventi contenitivi.

 

RDG: I bersagli si queste nuove norme sono per lo più i poveri e gli esclusi, quei soggetti che usano la città e il territorio per la propria sopravvivenza. I loro comportamenti non hanno rilevanza penale, dunque il solo codice penale non servirebbe a sanzionarli. E dove non arriva il penale arriva l’amministrativo, oltretutto con meno garanzie. Cosa sta succedendo, in questo passaggio? Cosa sta succedendo al sistema delle garanzie?

LP: I bersagli sono all’evidenza i poveri (e, con essi, i migranti e i “ribelli”) nella prospettiva segnalata anni fa da Loïc Waquant quando denunciò la trasformazione in atto della guerra alla povertà, intrapresa (almeno sotto il profilo teorico) nei primi decenni del secondo dopoguerra, in guerra ai poveri. È in questo contesto che si inserisce la contrazione dei diritti e delle garanzie per le fasce marginali e la connessa riduzione dei controlli sugli apparati. L’esempio più eclatante è quello dei centri (CPT, poi CIE), introdotti dalla legge Turco-Napolitano per trattenere, senza alcun controllo di merito dell’autorità giudiziaria, gli stranieri sottoposti a decreto di espulsione, così realizzando una sorta di detenzione amministrativa.

Orbene, il decreto Minniti aggiunge un tassello a questo processo: non tocca i poteri sulla privazione della libertà personale, che fanno capo in via esclusiva dell’autorità giudiziaria, ma incide sulle limitazioni della stessa, alcune delle quali vengono attribuite, in maniera sostanzialmente incontrollata, all’autorità amministrativa. Il riferimento è alla norma che introduce il cosiddetto “DASPO urbano”, con cui il sindaco può stabilire un divieto di accesso ad alcune aree della città per chi «ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione» di infrastrutture di trasporto (strade, ferrovie e aeroporto). L’ampiezza della definizione ne consente potenzialmente – e ne ha consentito in concreto – un utilizzo assai ampio nei confronti di categorie eterogenee, dai mendicanti ai posteggiatori abusivi, dai clochard ai partecipanti a manifestazione di protesta.

L’introduzione del DASPO urbano, inoltre, conferma una tendenza di sistema. Le pratiche e le norme repressive o limitative di libertà e garanzie sono quasi sempre sperimentate nei confronti di categorie sociali marginali; una volta entrate nel sistema, poi, vengono estese in modo sempre più vasto. Così è oggi per il DASPO (acronimo di “Divieto di accedere alle manifestazioni sportive”), originariamente previsto per hooligans e ultras del calcio, invisi all’opinione pubblica di destra e di sinistra per le loro violenze gratuite. E lo stesso vale per altri divieti e scorciatoie processuali, come la “fragranza differita” (vero e proprio ossimoro, che autorizza l’arresto da parte della polizia a distanza di tempo dal fatto, erodendo la competenza esclusiva della magistratura in tema di libertà personale).

 

RDG: Questi spostamenti di potere, da un lato, il processo di amministrativizzazione e le tipologie specifiche di soggetti che queste norme vanno a colpire, dall’altro: possiamo dire che configurino quello che va sotto il nome di “diritto penale del nemico”?

LP: Certamente sì, anzi la definizione è molto felice. Essa descrive, infatti, assai bene la diversa declinazione delle garanzie per i cittadini a pieno titolo e per alcuni soggetti o gruppi identificati come estranei al contesto sociale, a prescindere dalla gravità dei loro comportamenti. Se si è cittadini si viene perseguiti, anche in caso di reati gravissimi (pensiamo all’omicidio o alla corruzione miliardaria), con il rispetto di tutte le garanzie previste dal sistema processuale. Per i nemici, invece, le garanzie deperiscono, nel perseguimento dei reati (anche se di media gravità o addirittura bagatellari) e in una dimensione più generale. Un esempio per tutti: in forza del decreto Minniti sull’immigrazione, i richiedenti asilo, in una procedura in cui può essere in gioco la loro stessa vita, non godono del diritto a un giudizio di appello, non devono necessariamente essere sentiti dal tribunale e via seguitando.

I nemici, poi, sono una categoria in continua espansione comprendente i non integrati nel sistema, per ragioni sociali, economiche, politiche e addirittura razziali. Ciò sta introducendo modalità nuove di governo della società. Mentre ai confini si costruiscono muri (blindando porti e costruendo steccati) per impedire l’accesso e la “contaminazione” con chi approda nel Paese, al suo interno si creano muri metaforici mediante strumenti giuridici e amministrativi. Ed è alle porte per i migranti, anche stabilizzati da anni (e magari da decenni), una cittadinanza dimezzata, revocabile a seguito di condanna per reati gravi o di media gravità.

Se i migranti sono i nemici per eccellenza, tale status è condiviso da altre categorie di cittadini in un percorso che consta, ormai, di molte manifestazioni. Paradigmatica quella della repressione ventennale del movimento No TAV in Val Susa, nella quale si è dispiegato l’intero armamentario del diritto del nemico, realizzato da una pluralità di attori e su diversi piani (amministrativo, legislativo e giudiziario): il prefetto di Torino ha reiterato decine di volte ordinanze emesse “per ragioni di necessità e urgenza” tese a limitare, nella zona circostante il cantiere per la costruzione di opere preliminari alla linea ferroviaria Torino-Lione, l’esercizio dei diritti di circolazione e di manifestazione; il Parlamento ha varato (nel 2011 e nel 2013) leggi ad hoc con cui il cantiere della Maddalena viene trasformato in «sito di interesse strategico» (con divieti penalmente sanzionati finanche di condotte ostruzionistiche, di riproduzione fotografica e via elencando); il territorio della valle è stato militarizzato nel senso letterale del termine, addirittura con ricorso a forze armate già impiegate in missioni di guerra all’estero. Per non dire della magistratura (in particolare la procura della Repubblica e i giudici della cautela torinesi), protagonista di un irrigidimento repressivo inedito, con la dilatazione a dismisura delle ipotesi di concorso di persone nel reato, il ricorso massiccio alla custodia cautelare in carcere (pur facoltativa) anche nei confronti di incensurati, la costruzione dell’antagonista radicale come “tipo di autore” pericoloso per definizione, l’uso di un linguaggio truculento per descrivere e ricostruire gli eventi, la predisposizione di una corsia privilegiata per i procedimenti a carico di esponenti del movimento, una cura particolare nei rapporti con la stampa in funzione di un processo mediatico parallelo e, addirittura, la contestazione del delitto di attentato per finalità terroristiche (con prolungata custodia in carcere duro per quattro imputati) con riferimento a un episodio poi definito dai giudici del merito come violenza aggravata a pubblici ufficiali.

In questo modo si incide profondamente sul sistema giuridico, abbattendo selettivamente le garanzie, irridendo il principio di uguaglianza e introducendo una vastissima discrezionalità amministrativa.

 

RDG: Letto così, è un processo ampio, radicale ed epocale, almeno sotto il profilo del ribaltamento sia dello Stato sociale come forma di governo della società sia del sistema di garanzie. Un cambiamento così importante sembra accompagnato da troppo silenzio. Dal tuo osservatorio, c’è un dibattito aperto su questo processo?

Il dibattito, vivace fino a un paio di decenni fa, è oggi sostanzialmente assente. Ciò è il portato di una situazione nella quale la politica non ha altro interesse che la ricerca del consenso e i corpi intermedi sono in crisi o, comunque, silenti. Così lo Stato penale (o comunque le politiche di ordine) prende il sopravvento sostituendo lo Stato sociale.

Intendiamoci. Non penso affatto che lo Stato sociale sia, di per sé solo, in grado di assorbire le molteplici forme di marginalità e devianza. Il problema è complesso e non si presta a semplificazioni. Ma è certo che interventi appropriati e continuativi sul piano sociale riducono le fasce di marginalità, consentono un maggior dialogo delle istituzioni con i (vecchi e nuovi) cittadini, restituiscono dignità anche agli ultimi. La cosa paradossale è che ciò era ben presente alla maggioranza politica che ha convertito in legge il decreto Minniti, tanto da indurla a introdurre nel testo, come ho già ricordato, molti significativi riferimenti al benessere dei cittadini e alla qualità della vita nei contesti urbani. Salvo non prevedere, per essi, risorsa alcuna. Mentre il vero problema sta proprio nelle scelte in tema di dislocazione delle risorse. Ha ragione chi sostiene che il disordine e il degrado urbano (il “vetro rotto” come dicono i teorici della tolleranza zero) vanno affrontati, se si vuole evitare ulteriore degrado. Ma essi possono essere affrontati con un surplus di repressione o, al contrario, con interventi di sostegno sul piano sociale. Per dirla con una battuta, di fronte al vetro rotto si può investire in poliziotti o in vetrai… E non è la stessa cosa.

 

RDG: A leggere qualche dato si vede che i milioni per nuove assunzioni nella polizia municipale, per armarla, per acquistare i Taser e per installare telecamere si trovano…

LP: È vero, c’è un investimento massiccio in strumenti repressivi. Che, pure, hanno, non diversamente da quelli sociali, costi elevati. Un criminologo – se ben ricordo Salvatore Palidda – ha calcolato che una videocamera attiva, cioè accompagnata dall’esame e dall’analisi costante delle immagini riprese, costa quanto un assistente sociale. Il problema è, dunque, la scelta sulle modalità di governo delle città: con politiche di inclusione o con politiche repressive e di rimozione. L’Italia, dal decreto Minniti in poi, ha scelto la seconda strada, accodandosi, con vent’anni di ritardo, alle politiche di “tolleranza zero” degli Stati Uniti d’America e a quelle seguite da Tony Blair nel Regno Unito.

La tipologia di soggetti potenzialmente pericolosi, da reprimere o da espellere, si arricchisce sempre di più. In un libro di un paio di anni fa (Prove di paura. Barbari, marginali ribelli, Edizioni Gruppo Abele) ne ho abbozzato un elenco, pur ampiamente incompleto: poveri, tossicodipendenti, matti, alcolizzati, deformi, barboni, mendicanti, prostitute di strada, viados, lavavetri, posteggiatori abusivi, ambulanti senza licenza, inventori di mestieri, benzinai improvvisati della domenica, venditori di fiori o fazzoletti, ombrellai dei giorni di pioggia, zingari, giocolieri di strada, questuanti, oziosi, vagabondi, punkabbestia coi loro cani, vecchi che frugano nelle pattumiere e via elencando. Sono i resti, gli scarti da cui ‒ in forza di un pensiero che ha ridisegnato i sistemi istituzionali, i rapporti sociali, il concetto stesso di cittadinanza e di democrazia ‒ la società deve difendersi con ogni mezzo. Il suo postulato è che la diversità di condizioni di vita delle persone è un dato inevitabile (o addirittura positivo) e che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso l’espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei “non meritevoli”, degli sconfitti, dei marginali, appunto.

Se mi è consentito un riferimento storico, l’elenco che ho provato a redigere non è così diverso da quello predisposto nel 1852, per descrivere il sottoproletariato, da Marx: «vagabondi, soldati destituiti, detenuti liberati, forzati evasi, truffatori, saltimbanchi, lazzaroni, borsaioli, prestigiatori, facchini, ruffiani, cantastorie, cenciaioli, arrotini, calderai ambulanti, accattoni, insomma la massa indecisa, errante e fluttuante che i francesi chiamano la Bohème» (Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti). Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, se non le politiche…

 

RDG: Il governo Lega-Cinquestelle sta avanzando rapidamente sulla stessa strada: l’ordinanza sugli sgomberi degli stabili occupati e il successivo decreto sicurezza di Salvini hanno perso quella parvenza di assistenza sociale che il decreto Minniti aveva, nuovi decreti sui migranti continuano sulla via delle minori garanzie, e poi la legittima difesa…

LP: La legge sulla legittima è in realtà una legge che rende legittima l’offesa, posto che in essa sparisce ogni proporzione tra l’aggressione subita e la reazione attuata. Mai, neppure in epoca fascista, i principi di civiltà giuridica e le regole di convivenza avevano subito uno strappo così profondo e lacerante. Siamo di fronte all’introduzione nel sistema di una sorta di (possibile) pena di morte privata, cioè decisa dalla persona offesa (o presunta tale) e da essa direttamente inflitta. È la cancellazione, con un tratto di penna, del diritto penale moderno che ha come idea guida e ragion d’essere la sottrazione del reo alla vendetta privata e l’attribuzione esclusiva allo Stato del potere di punire le condotte illecite, all’esito di un processo garantito e a opera di un giudice imparziale. Ma c’è di più. C’è la rinuncia dello Stato al compito di difendere al meglio i propri cittadini, sostituito da un messaggio ambiguo e pericoloso: «arrangiatevi da soli, noi ci preoccupiamo di garantirvi, comunque, l’impunità».

Più in generale, i primi interventi del governo giallo-verde si collocano, sia sul versante migranti che su quello della sicurezza, nella scia di quelli varati dal governo precedente e dal suo ministro dell’Interno. Con due varianti: un’ulteriore radicalizzazione in chiave repressiva e il venir meno di ogni riferimento al quadro costituzionale, cioè al sistema dei diritti e delle garanzie. Per Salvini, in particolare, il riferimento alla Costituzione è sostituito da quello “alla volontà dei 60 milioni di italiani che mi hanno votato” (sic!). Di qui le sue ricorrenti affermazioni: “io tiro dritto” e “me ne frego”.

 

RDG: La questione della insicurezza percepita dai cittadini è il cavallo di battaglia della destra e dei sindaci – bipartisan, per altro. Si è persa del tutto la possibilità e la capacità di un discorso razionale basato sulla realtà. Il fatto che i reati, anche quelli più gravi come l’omicidio, siano in costante calo da anni non fa presa sul senso comune. Come possiamo proporre un’altra narrazione, alternativa alla paura?

LP: Salvini stesso, commentando i dati sull’andamento della criminalità, ha dovuto ammettere, nei giorni scorsi, che, nel Paese, i reati sono in diminuzione da anni: non solo gli omicidi, ma anche le rapine e persino i furti. Eppure, la percezione è diversa e il senso di paura e di insicurezza cresce.

Ciò ha una prima ragione nelle caratteristiche dell’informazione e chiama in causa direttamente gli operatori del settore. Ecco i risultati di una accurata ricerca realizzata nel 2013, anno caratterizzato dal tasso di omicidi più basso dall’Unità d’Italia (destinato a scendere ulteriormente negli anni successivi). Ebbene, in quell’anno, l’insicurezza ha occupato il 16,1% delle notizie fornite nelle edizioni di prima serata dei telegiornali italiani. In tale tipologia di notizie, la criminalità si è confermata la componente principale. Sono stati i crimini violenti a dominare la scena dell’informazione. Particolarmente interessante è il confronto del numero di notizie di criminalità fornite nelle edizioni di prima serata dei diversi telegiornali: Studio Aperto, 1.369; Tg4, 1.153; Tg5, 1.006; Tg1, 724; Tg2, 226; Tg3, 206; La7, 125. Netta, dunque, l’enfatizzazione della criminalità nei telegiornali con maggiori indici di ascolto (Mediaset e Tg1). Va aggiunto che nei telegiornali italiani la percentuale di notizie di criminalità è la maggiore d’Europa. Un confronto, sempre relativo al 2013, tra le edizioni serali delle principali reti pubbliche evidenzia, a fronte delle già ricordate 724 notizie del Tg1, 694 notizie per Tve (Spagna), 427 per Bbc.One (Regno Unito), 388 per France2 e 44 per Ard (Germania). Quanto alle modalità di narrazione si rileva, nel telegiornale serale della principale rete pubblica italiana, uno spazio nettamente prevalente alla cronaca nera e ai crimini “a sangue freddo”, che talora guadagnano addirittura il primo posto.

Nella diffusione della paura che sembra attanagliare il Paese c’è dunque, accanto a fatti incontestabili, una forte componente indotta. In altri termini, è una pressione politica, culturale, informativa che alimenta i vissuti di insicurezza. Ciò è confermato in maniera univoca da alcune indagini sociali che evidenziano come, mediamente, i cittadini considerino abbastanza sicuro il territorio di riferimento ed estremamente insicuro quello conosciuto solo in maniera indiretta.

Alla base della deformazione informativa sta, dunque, la spettacolarizzazione della notizia (legge fondamentale del sistema delle comunicazioni) che porta con sé enfatizzazione e condizionamento dell’opinione pubblica. Ma in questo contesto si colloca anche l’influenza di una politica priva di idee forti pronta a cavalcare la questione securitaria come veicolo di acquisizione del consenso, con un effetto di ulteriore moltiplicazione dell’insicurezza (imposta come tema fondamentale del confronto politico).

 

RDG: A proposito di comunicazione, le politiche che escludono si alimentano anche di una comunicazione sociale fatta di stigma e odio nei confronti di alcuni gruppi-bersaglio. Lo hate speech dilaga soprattutto sui social media e non raramente non si limita alle parole ma finisce con l’essere il primo passo di gesti violenti razzisti, xenofobi o omofobi. Le leggi che sanzionano questi comportamenti ci sono ma il codice penale non sembra incidere più di tanto…

LP: Non vedo ragioni per aggravare le pene per reati a sfondo razziale. La legge c’è ed è sostanzialmente adeguata. Il problema è, piuttosto, culturale e coinvolge, come ho appena detto, la politica. In passato, di fronte alle chiacchiere da bar, incluse quelle razziste, essa, bene o male, cercava di razionalizzare e mediare. Oggi invece le segue e le amplifica. Il linguaggio dei politici anni Sessanta, inclusi quelli non lontani dalle idee e dai progetti espressi da Salvini, era profondamente diverso da quello attuale: più rispettoso, magari ipocrita ma più tollerante. Ciò dava vita a un sistema comunicativo meno violento. Non ho alcun rimpianto per quel passato, ma lo ricordo perché aiuta a comprendere quanto sta accadendo e le relative ragioni. Aggiungo che, al linguaggio della politica, si affiancano, con effetti devastanti, l’irriflessività tipica dei social, gli slogan semplificatori da essi indotti, gli scontri verbali continui (talora non casuali ma perseguiti e organizzati) che li percorrono.

Orbene, le politiche repressive si nutrono di queste sollecitazioni e ciò crea un circolo vizioso che si autoalimenta. Non solo ma è facile prevedere, in questo contesto, che, di fronte all’insuccesso delle politiche securitarie, crescerà la spinta verso ulteriori inasprimenti (con marginalizzazione delle posizioni che chiedono cambiamenti di rotta).

 

RDG: Tu sei, insieme ad altri, tra i promotori di una nuova iniziativa politica e di comunicazione, Volerelaluna, che è un sito web ma anche un gruppo che promuove iniziative concrete, a Torino. Quali spazi vedi oggi non solo per resistere all’onda razzista e sovranista, ma per promuovere un progetto sociale e politico con un respiro di reale alternativa?

LP: Credo che non ci si possa ritirare in convento e conservare i sacri testi in attesa di tempi migliori. Ma credo anche che i tempi del cambiamento non siano brevi e che non esistano scorciatoie. Gli orientamenti in tema di sicurezza della maggioranza e del governo in carica (pessimi e, nel medio termine, controproducenti) sono anche il frutto di errori e di una conclamata incapacità dei governi precedenti di affrontare la situazione in modo razionale. Non serve, dunque, a nulla pensare a prossime rivincite elettorali di una sinistra che non c’è e a nuovi organigrammi delle forze attualmente all’opposizione. Occorre, invece, impegnarsi su due piani paralleli: costruire, metodicamente e con pazienza, una nuova cultura sorretta da una informazione critica e cambiare comportamenti e modi di essere costruendo iniziative nel sociale per dare risposte (anche limitate e parziali) a molti bisogni sociali insoddisfatti. Di qui la scelta di Volerelaluna: da un lato, costruire un sito totalmente autogestito e occasioni di formazione e autoformazione; dall’altro, sporcarsi le mani in modo disinteressato nel sociale. Nessuna fuga dalla politica, ma il tentativo di contribuire a costruire, nei tempi necessari, una politica diversa: l’unico antidoto ai nazionalismi egoistici, alle manifestazioni di razzismo e ai fascismi che oggi incombono, non solo nel nostro Paese.

 

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Livio Pepino: magistrato dal 1970 al 2010, è stato segretario nazionale e poi presidente di Magistratura Democratica. Dal 2006 al 2010 è stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Attualmente dirige le Edizioni Gruppo Abele. Intanto studia, e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e di difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Collabora con siti, riviste e quotidiani (tra i quali, saltuariamente, Il Manifesto e Il Fatto quotidiano). È autore di numerose pubblicazioni: tra le altre Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012); Forti con i deboli (Rizzoli, 2012); Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia (con Manuela Mareso, Edizioni Gruppo Abele, 2013); Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli (Edizioni Gruppo Abele, 2015). Sul versante più propriamente politico ha scritto, con altri, Io dico no (Edizioni Gruppo Abele, 2016) e Indicativo futuro. Le cose da fare (Edizioni Gruppo Abele, 2017).

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