Il neoschiavismo nelle campagne italiane Intervista a Francesco Carchedi
Nel complessivo indebolimento del mondo del lavoro prodotto dalla liberalizzazione globale dei mercati e dal turboliberismo, un settore, quello agricolo, mostra ferite ancora più evidenti. Oggi un terzo degli addetti in agricoltura in Italia (400.0000 su 1.200.000) sono stranieri, per lo più desindacalizzati e sottoposti a un intenso sfruttamento perché più facilmente ricattabili dagli imprenditori. Ci sono poi, secondo le stime della FLAI-CGIL, 200.000 i lavoratori informali, molti in nero, ancor più ricattati e sottoposti a condizioni inaccettabili.
Il caso di Paola Clemente, morta di fatica sui campi nel 2015, ha dimostrato però come anche gli italiani siano pesantemente sfruttati e come a fare caporalato siano anche le agenzie interinali. La legge 199 del 2016 giustamente attribuisce all’imprenditore la responsabilità dell’ingaggio del caporale e della manodopera. Ma quella buona normativa presenta ancora criticità che vanno sanate. Il caporalato è un fenomeno storico, non limitato, come spesso si crede al Sud d’Italia: è presente anche al Nord, così come in altri Paesi europei, dalla Spagna, alla Francia, alla Germania. È dunque necessario guardare al fenomeno con uno sguardo globale, anche perché, ci dice Francesco Carchedi, docente all’Università di Roma e collaboratore dell’Osservatorio Placido Rizzotto sulle agromafie, a esso contribuiscono indirettamente le multinazionali con il land grabbing, un processo neocoloniale di acquisizione delle terre senza il consenso delle comunità che ci abitano, in Africa e non solo; processo che alimenta anche i flussi migratori verso le campagne italiane.
Rapporto Diritti Globali: Da studioso sul campo delle dinamiche migratorie e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, qual è stata l’evoluzione del fenomeno in Italia negli ultimi tempi?
Francesco Carchedi: La liberalizzazione del mercato a livello globale prodotta dal FMI nel 1997, in Italia si è concretizzata con la legge Biagi del 2003. La legge conteneva norme che hanno sostanzialmente attribuito al versante del mercato un potere enorme. Le implicazioni di questa teoria liberista hanno provocato uno sconquasso interno al mercato del lavoro: gli imprenditori hanno potuto dettare le condizioni ai lavoratori. Nei settori più fragili, come quello agricolo, tutto questo ha avuto conseguenze pesanti: negli ultimi dieci anni ciò ha portato a un processo di sostituzione della manodopera italiana con la classe lavoratrice straniera. Questo per due ordini di ragioni: i braccianti italiani più anziani non sono stati sostituiti dalle generazioni più giovani, mentre la forte disponibilità di migranti ha portato nei campi manodopera desindacalizzata alla mercé degli imprenditori. Si è prodotto un fenomeno di sostituzione: oggi un terzo degli addetti in agricoltura in Italia – 400.0000 su 1.200.000 – sono stranieri. Stime della FLAI-CGIL poi misurano in 200.000 i lavoratori informali: in gran parte si tratta di lavoratori in nero. Il processo di liberalizzazione del mercato ha infine deteriorato i servizi pubblici del lavoro. Se prima l’incontro fra domanda e offerta di lavoro avveniva tramite le strutture pubbliche – collocamento, centri per l’impiego – ora molti imprenditori li aggirano usando le agenzie interinali. Si crea un rapporto diretto di natura privatistica che viene ancor di più peggiorato dalla caratteristica tipica del settore agricolo: la richiesta di manodopera ha dei picchi nelle fasi stagionali di raccolta. L’aggiramento è anche delle norme sulla garanzia a un alloggio, prima previsto dai contratti nazionali e dalla tradizione nelle campagne. In questo modo i migranti si riuniscono in agglomerati spontanei abusivi, vere sacche di povertà. Lo sfruttamento è eclatante: gli imprenditori decidono quali migranti prendere, producendo una vera sostituzione etnica rispetto alle comunità che via via si sono sindacalizzate. A metà degli anni Novanta le comunità più rappresentate nelle campagne italiane erano quelle dei tunisini, marocchini e senegalesi. Quando queste si sono sindacalizzate, gli imprenditori hanno scelto la comunità rumena o altre comunità africane.
RDG: La legge contro il caporalato (la numero 166 del 2016) ha creato il reato penale punendo anche il datore di lavoro che sfrutta la manodopera. A più di un anno dalla sua introduzione, quale giudizio si può dare della sua applicazione ed efficacia nel contrasto del fenomeno?
FC: La situazione di forte sfruttamento, che FLAI-CGIL con l’Osservatorio Placido Rizzotto sulle Agromafie hanno denunciato assieme alla Caritas e alla Coldiretti, riguarda una parte consistente del settore agricolo. Circa il 20-25% delle imprese medio-grandi operano in sostanziale sfruttamento della manodopera. Alcune pratiche rasentano la para schiavitù. Il punto di svolta è stata la tragica morte di Paola Clemente nell’estate del 2015: se fino a quel momento l’idea di fondo era che gli sfruttati fossero solo i migranti e a farlo fossero caporali etnici, il caso di Paola Clemente ha ribaltato questo paradigma. La legge vigente fino a quel momento prevedeva nel solo articolo 603 bis la dizione di grave sfruttamento per perseguire il traffico di esseri umani come reato penale. Era quasi impossibile che questo reato venisse contestato agli imprenditori. Per più di dieci anni il sindacato ha contestato questa visione. Il caso di Paola Clemente ha portato il governo dell’epoca a pensare a una modifica della norma del codice penale e a una nuova legge. Nella legge 199 del 2016 sul cosiddetto caporalato viene ribaltata la visione che voleva nel caporale e nel reclutamento l’unico reato penale. Infatti, i caporali non sono tutti aguzzini come tratteggiato precedentemente in un’ottica tutta interna all’etnia di origine dei braccianti. Si trattava di una lettura xenofoba e razzista. Il caso di Paola Clemente ha dimostrato come anche gli italiani fossero sfruttati e che i caporali fossero le agenzie interinali. Con la legge 199 si rimette in capo all’imprenditore la responsabilità dell’ingaggio del caporale e della manodopera. Il caporale è infatti il mandatario dell’imprenditore. Il caporalato è un rapporto economico e produttivo con due attori: l’imprenditore e il reclutatore. A un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge possiamo dire che si tratta di un’ottima normativa, sebbene non manchino criticità e incongruenze. Accanto al sanzionamento dei rapporti di sfruttamento, nella legge c’è anche il tentativo di creare un nuovo modello dei processi produttivi con la creazione dell’Albo delle aziende della rete di qualità. Su quest’ultimo punto vi sono molti ritardi e problemi, soprattutto da parte delle organizzazioni datoriali.
RGD: Uno degli aspetti che lei mette più in evidenza è la presenza di veri e propri distretti che dalla Bulgaria si trasferiscono temporaneamente in Italia. A cosa è dovuto questo fenomeno?
FC: La FLAI-CGIL ha avuto incontri con i sindacati bulgari che hanno denunciato la presenza di organizzazioni malavitose che controllavano braccianti agricoli da mandare nelle campagne italiane. Abbiamo potuto appurare tali denunce analizzando a lungo la presenza di questi gruppi nelle campagne pugliesi e campane. A Borgo Mezzanone in provincia di Foggia e a Mondragone in provincia di Caserta gruppi di etnia rom provenienti dalla città bulgara di Sliven sono diventati un flusso continuo con cambi ogni tre mesi. In totale, ogni anno circa 8.000 persone in questi due paesi occupano le stesse baracche. La malavita rumena è in accordo con quella italiana per sfruttare queste persone. Interi nuclei familiari di bambini vanno al lavoro nelle campagne in condizioni ancora peggiori rispetto a quelle dei migranti provenienti dall’Africa e della stessa Romania. Si tratta di un fenomeno nuovo e assolutamente inedito, soprattutto in queste proporzioni. Gli imprenditori senza scrupoli aumentano nuovamente le condizioni di sfruttamento per ottenere manodopera a un prezzo sempre più basso.
RDG: Il ruolo dei cosiddetti caporali etnici è centrale nelle dinamiche di sfruttamento. Ci sono distinzioni tra le varie nazionalità di appartenenza e che ruolo giocano i caporali e gli imprenditori italiani?
FC: Il caporale è una figura sociale e produttiva legata in modo organico al datore di lavoro. L’uno senza l’altro non svolgerebbero nessuna funzione sociale e tanto meno produttiva. I caporali coinvolti sono di quattro tipi, distinguibili in base al grado di condivisione e di codecisionalità che stabiliscono o non stabiliscono con le rispettive squadre di braccianti, e con gruppi e sottogruppi di lavoratori che le compongono. Ovvero, quanto margine di decisione – che può essere maggiore o minore oppure addirittura nullo – caratterizza le scelte operative di ingaggio e di svolgimento del lavoro che i medesimi caporali acquisiscono dagli imprenditori di riferimento. Ai diversi tipi di caporali fanno da contraltare altrettanti tipi di aziende.
Una prima forma organizzata è costituita da squadre di braccianti che, una volta reclutati dai rispettivi caporali e presentati al datore di lavoro vengono regolarizzati contrattualmente. Il caporale è “un primo tra pari” – rispetto alla squadra che costituisce – e un collaboratore importante relativamente al rapporto che instaura con l’imprenditore. È una persona intraprendente e capace di reclutare, organizzare e proporre le squadre bracciantili. Queste sono reclutate e ingaggiate in un primo momento illegalmente (al di fuori cioè dei canali ufficiali), mentre successivamente i membri che le compongono vengono contrattualizzate e dunque instradati nelle dinamiche contrattuali standard. Il grado di decisionalità tra i tre contraenti è alto: sia nel rapporto tra il caporale i braccianti, sia tra il caporale e gli imprenditori e sia tra questi ultimi e i braccianti. A tale categoria appartiene una fascia predominante delle aziende agricole che occupano personale extra-familiare o che ricorrono esclusivamente a lavoratori salariati (circa i quattro/quinti del totale sopra ricordato).
La seconda forma organizzata è quella costituita dalle squadre di lavoro che si aggregano intorno a un caporale che – anch’esso – si configura con un “primo tra pari”, ovvero un caposquadra: una persona intraprendente, con mezzi di trasporto propri o in grado di affittarli, esperto del processo organizzativo correlabile alle diverse fasi della raccolta. Il grado di decisionalità è circolare e basato su principi negoziativi. Sono squadre fidelizzate come le precedenti e le aziende li ingaggiano stagione dopo stagione. Siffatta figura di caporale non è invasiva ma rispettosa delle esigenze della squadra, e i salari sono concordati. Le aziende – e i singoli datori di lavoro – hanno con essi rapporti di reciproca convenienza. La differenza, pur tuttavia, non secondaria, rispetto alla tipicizzazione precedente, è che in questa i rapporti di lavoro rimangono informali, ossia contra legem. All’ingaggio informale non segue una occupazione formale, ma una occupazione altrettanto informale e al nero. Stimiamo che il 60% delle 30.000 aziende citate – pari a 18.000 unità – utilizzi queste figure.
La terza forma organizzata è completamente sbilanciata sul carattere meramente decisionale e strettamente dirigista del caporale. In questo caso egli decide tutto, i braccianti da esso coinvolti devono accettare qualsiasi decisione presa. Il regime è fortemente gerarchico. Le decisioni sono unidirezionali – dall’alto verso il basso – e non si discutono mai. Sono nei fatti delle contro-squadre, in contrasto diretto con la prima e con la seconda. Sono il loro opposto, in quanto a esse fortemente concorrenti. Le aziende che usano questi caporali privilegiano i metodi spicci, sleali e cinici: abbassano di molto il prezzo delle commesse, attenendosi rigidamente sulla quota stabilita dal “borsino salariale”. Cosicché il caporale riduce al minimo sopportabile i salari per le rispettive squadre. Sono salari talmente bassi che non riproducono nemmeno la stessa forza lavoro. Sono salari di sussistenza minimale. Per prevenire conflitti viene usata la violenza. L’aggressività, le minacce e la violenza indociliscono i braccianti. Le vertenze sono rare. A questo modello stimiamo aderisca il 30% delle aziende, quasi 9.000 unità.
La quarta configurazione organizzativa – anch’essa da considerarsi una contro-squadra (in opposizione alla prima e alla seconda tipologia) – è suddivisibile in due modelli principali: caporali collusi (in modo consapevole o inconsapevole) con organizzazioni criminali – e dunque imprese che non disdegnano tali rapporti – (stimabili al 7%, con 2.100 unità coinvolte) e caporali membri (coscienti o incoscienti) di organizzazioni mafiose (pari al 3% del totale, uguale a 900 unità). L’impresa mafiosa gestisce direttamente la propria manodopera e al contempo può imporla ad altre aziende in affari con essa, oppure imporla con la forza intimidatrice ad altre ancora. Va da sé che può usare contemporaneamente tutte queste modalità. Nella quarta configurazione non siamo in presenza di datori di lavoro ma bensì di pre-datori di lavoro. La struttura messa in opera si configura come gerarchica a forma piramidale, i cui ordini discendono rigidamente dall’alto verso il basso. Sono le più pericolose, poiché attivano, tra le altre cose, un processo che potremmo definire di inversione di sovranità: da quella legale a quella illegale, poiché non contrastate doverosamente. Il “borsino salariale” ne rappresenta la prova principale. Assistiamo al riguardo a una sorta di patologia sociale, ovvero a un accentuato accecamento da parte istituzionale, nonché da parte di significative frange aziendali. Accecamento non significa affatto non vedere, ma di non voler vedere, in quanto si guarda da un’altra parte o vedere poco e in modo superficiale sostenendo al massimo la “teoria delle mele marce” e non facendo nulla per rimuoverle dal cesto. Le differenze di siffatte categorizzazioni di caporali/aziende sono labili, al punto che dalla prima si può ascendere fino alla terza o da quest’ultima discendere alla prima. Oppure restare ancorati al modello prescelto.
RDG: Uno dei punti su cui tutti gli studiosi della materia sono concordi è “la necessità dell’accorciamento della filiera agricola” e “il ruolo distorto della Grande distribuzione organizzata” che impone prezzi troppo bassi alla produzione. Sono obiettivi realistici?
FC: La cosiddetta filiera di valore dipende dalla tradizione agricola e dal peso delle aziende che insistono su quel territorio. Il processo produttivo agricolo ha cinque distinte fasi: produzione, immagazzinamento, trasporto, confezionamento e commercializzazione. La fase di produzione ha una natura molto diversa dalle altre quattro successive. È quella che utilizza meno i criteri capitalistici e per questo il potere contrattuale dei braccianti è ridotto all’osso. Soprattutto nel settore dell’ortofrutta, quello in cui l’uso di macchinari è meno efficace: le colture di pomodori, fragole, ciliegie e anche uva non rendono possibile l’utilizzo di macchine che darebbero una resa insufficiente perché distruggono troppa quantità di prodotto. La filiera corta sullo stesso territorio sarebbe risolutiva del problema del caporalato. Ma difficilmente sullo stesso territorio si trovano tutte e cinque le fasi della produzione. In special modo al Sud la struttura agro-industriale per il confezionamento e la commercializzazione è assente. Quanto alla grande distribuzione essa frutta la situazione predeterminando prezzi bassi che si riverberano sulla filiera, in particolar modo sulla produzione nei campi: sono una minoranza di aziende – quelle medio-grandi e non quelle a conduzione familiare – a fissare a primavera il costo orario del lavoro. Quasi sempre questo è ben al di sotto del livello fissato dal contratto nazionale – sei euro netti l’ora – e produce lo sfruttamento che si verifica nelle campagne. In questo sistema i caporali sono in pratica l’istituzione del “borsino” dei prezzi fissato dagli imprenditori. Tocca a loro controllare il costo del lavoro e l’efficacia del raccolto. Quando i braccianti si ribellano allora diventano gli aguzzini prima citati con violenza e aggressioni.
RGD: Nel resto d’Europa il fenomeno del caporalato è presente? Quali sono le differenze principali?
FC: Il fenomeno del caporalato è inteso come limitato al Sud Italia. In realtà è presente anche nelle zone a più intensa produzione agricola, come Mantova, Asti, Alessandria, buona parte del Ferrarese, golfo di Baia Domizia (Caserta). Ma è presente anche in gran parte di Europa: in Spagna nella regione della Andalusia, in Germania nella zona del Magdeburgo, in Francia nella zona vinicola di Bordeaux e in Provenza. Si tratta infatti di un fenomeno storico, esistente da secoli: la migrazione dei braccianti per trovare lavoro e il loro sfruttamento da parte dei latifondisti o agricoltori. La differenza principale è climatica: nel Nord Europa i mesi di raccolta a causa del freddo sono di durata minore sebbene l’uso delle serre li abbia allungati. La maggior diffusione del fenomeno del caporalato in Italia, al Sud in particolare, è dovuta anche alla qualità dei prodotti che è secolarmente alta, ad esempio nel Foggiano e a Rosarno. Qui vi sono le colture fragili – pomodori, fragole, ciliegie, uva – prima citate e i braccianti non possono essere sostituiti dai mezzi meccanici. Quanto alla permanenza dei braccianti, già Giuseppe Di Vittorio negli anni Cinquanta raccontava come a Cerignola durante la raccolta arrivassero 100.000 persone che vivevano le baracche di felci, poi bruciate per concimare i terreni. La maggiore diffusione del caporalato nel Sud Italia è quindi dovuta queste due peculiarità. In più, ad esempio in Calabria, il territorio concentra culture diverse in pochi chilometri – ortofrutta in estate, le arance in autunno – e ciò produce un allungamento dei mesi. Il clima mite permette ai caporali di tenere i braccianti in baracche fatiscenti anche nei mesi autunnali.
RGD: Esiste una relazione tra i processi globali di sfruttamento dell’agricoltura in Africa – il cosiddetto land grabbing, la vendita di larghe porzioni di terre senza il consenso delle comunità che ci abitano – e l’immigrazione in Europa?
FC: Stiamo assistendo, a ritmi accelerati, a un fenomeno già presente a fine Ottocento con il colonialismo. Leopoldo II, re del Belgio, introduce il meccanismo di appropriarsi di un intero Stato come fece per primo con il Congo. Ciò implicò una privatizzazione: il Congo diventò sostanzialmente una proprietà privata del re. Dopo le decolonizzazioni, negli anni Novanta del Novecento e negli anni Duemila si accelera un nuovo fenomeno: le multinazionali comprano immensi territori degli Stati africani. Ciò è avvenuto in Senegal, in Nigeria, in Costa d’Avorio e in altri Stati. Le multinazionali hanno proposto contratti di investimento agli Stati desiderosi di avere entrate. In questi contratti si determinano ambiti produttivi agricoli. Le convenzioni statali danno benefici enormi alle multinazionali perché essendo di una durata di 30 o 40 anni, consentono loro di ammortizzare l’investimento in pochi anni dopo dei quali il ricavo è assicurato. Cosa avviene invece ai braccianti? Inizialmente i contratti di lavoro proposti sono convenienti: i salari sono più alti di quelli generalmente usati nel Paese. Ma sono bloccati rispetto alla convenzione trenta o quarantennale: non possono essere modificati. Se qualcuno si ribella – e in questi Paesi i sindacati sono molto fragili – le multinazionali hanno la forza di mantenere i salari bassi anche quando si arriva in giudizio: essendo le convenzioni internazionali lo strumento per dirimere la disputa giuridica è un arbitrato internazionale proposto da parte dello Stato per richiedere di modificare la convenzione. Le multinazionali però hanno quasi sempre la meglio grazie a meccanismi che vedono rappresentanti degli Stati e delle multinazionali in numero uguale con un presidente esterno scelto da un Albo, ma facilmente corruttibile. Il land grabbing è quindi un meccanismo talmente potente da non essere possibile scalfirlo. In più, ha conseguenze anche sotto l’aspetto migratorio. Basta pensare a una famiglia tipo africana con molti figli: con un salario medio mensile pari a 40 euro al mese da parte di una multinazionale, il capofamiglia non riesce a sfamare moglie e figli. In questa situazione diventa una scelta strategica da parte della famiglia decidere di far emigrare uno o più figli in cerca di fortuna in Europa. È così che arrivano moltissimi migranti Italia. Dunque, la migrazione è una conseguenza non marginale del processo di land grabbing.
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Francesco Carchedi: è docente presso il dipartimento di Scienze sociali ed economiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. È stato a lungo consulente del Dipartimento delle Pari opportunità della Presidenza del Consiglio italiano per gli interventi di protezione sociale alle vittime di grave sfruttamento sessuale e lavorativo. Ha coordinato e collabora con l’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL per la realizzazione del Rapporto su Agromafie e caporalato.
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