by Chiara Cruciati * | 3 Gennaio 2019 9:49
Tre ergastoli a testa, uno per ogni migrante affogato: è la pena, storica, che il procuratore di Bodrum, città turca sul Mar Egeo, intende chiedere per 14 persone accusate dell’omicidio di tre migranti, riporta il quotidiano turco Hurriyet.
Il naufragio risale al 17 settembre scorso: una piccola imbarcazione su cui viaggiavano 18 persone, iracheni e siriani di cui otto bambini, era partita dalle coste di Bodrum, diretta verso l’isola greca di Kos. Subito dopo la partenza ha cominciato a imbarcare acqua.
La guardia costiera turca è intervenuta, riuscendo a salvare 15 migranti. Degli altri tre sono stati recuperati i corpi senza vita: i cadaveri di due donne galleggiavano, la terza vittima – un uomo – era rimasta bloccata nella barca.
La procura di Bodrum ha incriminato 14 turchi, accusati di traffico di esseri umani e «omicidio colposo volontario»: «Sapevano che la barca poteva affondare, ma l’hanno ignorato», spiega il procuratore capo. La barca, aggiunge, aveva una falla e poteva portare un massimo di sette persone: ce ne hanno fatte entrare 18. Tra gli indagati (di cui, secondo HaberTurk, 8 sono agli arresti) ci sono il proprietario dell’imbarcazione e il suo «equipaggio», i trafficanti che hanno gestito la partenza e il proprietario dell’albergo dove erano tenuti in vista del viaggio.
Comunque vada, si tratta di un processo storico che potrebbe segnare un precedente importante, alla luce della pena sul tavolo: tre ergastoli l’uno. Un processo che ruota intorno ai confini tra Turchia e Grecia, oggetto di un accordo fortemente voluto dalla Ue per impedire l’arrivo di rifugiati sulla rotta balcanica. Dalle coste turche al cuore dell’Europa.
Un mese fa i corpi di tre migranti erano stati trovati in tre diverse cittadine turche, nella provincia nord-ovest di Edirne, al confine con la Grecia. Morti di freddo, dopo essere stati rimpatriati, come ha raccontato alla stampa un afghano, Jamaluddin Malangi: era stato deportato con loro, su un nave che ha attraversato il fiume di frontiera Evros, tra i principali punti di passaggio dei migranti diretti in Grecia dal territorio turco.
Nel 2018, secondo Atene, sono entrati illegalmente in Grecia 14mila migranti, contro i 5.500 del 2017. Pochissimi se si pensa ai numeri del 2015: oltre un milione di persone in fuga. Un crollo imputabile all’accordo Ue con Ankara: sei miliardi di euro per tenersi migranti e richiedenti asilo.
Ma c’è chi sfugge agli occhi turchi. Per finire nelle mani greche. È del 18 dicembre il rapporto di Human Rights Watch[1] che accusa la polizia ellenica di violenze sui migranti e deportazioni coatte in violazione del diritto internazionale. Di numeri precisi non ce ne sono: Hrw è riuscito a documentare 24 casi di deportazioni collettive lungo il fiume Evros, dalle 60 alle 80 persone alla volta costrette a imbarcarsi in direzione contraria dopo essere state picchiate e spesso derubate dei propri, pochi, averi. In tutti i casi il percorso è lo stesso: i migranti vengono arrestati dalla polizia locale, detenuti e poi portati via da uomini con il volto coperto, una sorta di commando paramilitare di frontiera non identificato.
Tutti rispediti in Turchia, senza che ne sia poi seguito il destino: Ankara, lo scorso giugno, ha unilateralmente sospeso l’accordo con la Grecia per la gestione bilaterale dei rimpatri. Un atto di rappresaglia per la mancata consegna di otto soldati turchi accusati di aver preso parte al tentato golpe del luglio 2016.
* Fonte: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO[2]
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