Stato d’eccezione. Alle radici dei decreti sicurezza
Prima colpirono i “terroristi”: erano nemici dello Stato e del sistema dei partiti. Allora li misero in carceri speciali, li assoggettarono all’articolo 90 (l’antesignano dell’attuale 41bis), li torturarono, fecero leggi d’emergenza e tribunali speciali, li sottoposero a condanne esemplari. Si era a cavallo tra la metà degli anni Settanta e quella degli Ottanta.
Poi si accanirono contro i tossicodipendenti, importando dagli Stati Uniti logiche e norme di “tolleranza zero”, con cui stigmatizzarono i consumatori di sostanze dei quali riempirono le carceri, trasformando la “guerra alla droga” in lotta a oltranza contro le vittime delle droghe, che intanto morivano a migliaia (dal 1973, allorché è iniziato questo tipo di rilevazione, i morti per overdose in Italia sono stati 25.069).
Anche in quel caso si fecero nuove leggi, improntate alla massima severità, trasformando un problema sociale e sanitario in una questione penale. Si era giunti alla fine degli anni Ottanta.
Poi venne la volta dei mafiosi: erano fuoriusciti dai confini stabiliti e dal ruolo ancillare del potere politico che storicamente gli era proprio; avevano osato mordere la mano che li aveva sempre nutriti e spesso protetti. E furono di nuovo leggi e misure eccezionali, l’ergastolo ostativo e il carcere duro del 41 bis sino alla morte. Siamo all’inizio degli anni Novanta.
Nel 1981, l’anno in cui si tenne il referendum per l’abrogazione della pena perpetua promosso dal Partito Radicale (che ottenne, pare incredibile, il 22,63% dei consensi, oltre 7 milioni di voti), gli ergastolani erano 318. Nel 1989, allorché la Camera approvò (anche questo pare ora incredibile) un ordine del giorno per l’abolizione del carcere a vita, erano circa 400. Oggi (a fine giugno 2018) sono 1.726, di cui circa i tre quarti (1.231) “ostativi”, vale a dire che non possono ottenere alcun beneficio se non si “pentono” e “collaborano” con i magistrati, ovvero non denunciano altri. Si tratta di un numero in costante crescita, in forte controtendenza rispetto al calo della criminalità, mafiosa e non, e degli omicidi.
Anche su questo l’Italia si è allineata alle tendenze globali, e particolarmente statunitensi, alla iper-penalizzazione. Gli ergastolani negli USA sono addirittura 160mila, di cui 50mila senza possibilità di condizionale. Il carcere è un business che, come tutti i business, tende a incrementare sé stesso: oltre 10 milioni di detenuti a livello mondiale; il record lo hanno gli Stati Uniti, con 2.121.300 reclusi, vale a dire 710 ogni 100mila abitanti, senza contare gli altri circa 5 milioni sottoposti a misure penali o libertà vigilate fuori dal carcere.
Poi nel mirino finirono i poveri, i senzatetto, i mendicanti, i malati psichici: disturbavano, e allora vennero criminalizzati a colpi di decreti-sicurezza, di polizie municipali e di “DASPO urbano”, dal florilegio di ordinanze dei sindaci alla metà degli anni Novanta alle più recenti norme Minniti-Orlando e, infine, al decreto Salvini, che è arrivato persino a reintrodurre la penalizzazione del blocco stradale e di quello ferroviario, una fattispecie di reato introdotta a suo tempo da Scelba, il ministro di polizia degli anni Cinquanta, specializzato nella repressione antioperaia! Progressivamente si è realizzata «la trasformazione del povero da figura economicamente inutile se in libertà, a soggetto economicamente redditizio quando prigioniero» (Elisabetta Grande, Il terzo strike – la prigione in America, Sellerio, 2007). Ma, assieme e intanto, si è alimentato a livello sociale il discorso d’odio verso i più deboli. Non si contano più i quotidiani episodi di violenza, pubblica e privata, contro senzatetto e mendicanti ma anche – è il dato nuovo – verso chi li soccorre e aiuta.
Poi venne il turno degli immigrati: erano troppi, dicevano i governanti convincendone i governati; un flusso continuo che faceva paura e che facilmente poteva essere strumentalizzato da forze politiche sempre più ciniche. Vennero varate apposite norme: la legge Martelli del 1990 che cercava di governare i flussi, programmandoli sulla base delle necessità produttive del Paese: riducendo così gli uomini a braccia; assieme, sanzionava penalmente, anche con il carcere, l’immigrazione clandestina e fissava i meccanismi di espulsione. La successiva legge Turco-Napolitano del 1998 istituì per la prima volta i Centri di Permanenza Temporanei, vale a dire prigioni in cui detenere persone colpevoli solo di essere straniere, sottoponendole a un “diritto penale del nemico”. Su questi impianti normativi, inasprendoli ulteriormente, intervenne poi la legge Bossi-Fini del 2002. E siamo all’oggi, dove le politiche del respingimento, dei muri e della chiusura non hanno neppure più bisogno di essere tradotte in norme, né tanto meno discusse in Parlamento e neanche essere condivise collegialmente dal governo in carica: per chiudere i porti bastano i tweet e i proclami del ministro di polizia.
Dagli anni Novanta, lo Stato d’eccezione aveva progressivamente individuato il nuovo nemico nello straniero, iniziando da ultimo a criminalizzare anche quelli che considera suoi complici, vale a dire le Organizzazioni Non Governative, le ONG, giacché il razzismo istituzionale non tollera testimoni.
Intanto, migranti e rifugiati continuano a morire a decine di migliaia nel tentativo di entrare in Europa (dal 1993 al 5 maggio 2018 le morti accertate sono state 34.361, mentre, a livello mondiale, dal 2000 a oggi sono oltre 60mila i migranti morti nel tentativo di lasciare il loro Paese; stragi di cui, naturalmente, nessuno si ritiene responsabile); a finire in Centri di identificazione ed espulsione, spesso peggiori delle carceri; a essere sfruttati bestialmente nelle campagne del Mezzogiorno e del profondo Nord; a essere quotidianamente discriminati e sempre più spesso aggrediti nelle città. Doppiamente perseguitati, in quanto stranieri e in quanto poveri.
Ed è storia che dura da oltre 30 anni, ma che oggi vede un drastico peggioramento perché il razzismo promana direttamente dall’alto, dalla politica, dalle politiche dei governi, dagli imprenditori dell’odio e dai professionisti della paura.
Per i rom, infine, non c’è stata una stagione, per quanto lunga: la loro persecuzione comincia nella notte dei secoli e non ha mai avuto termine. L’episodio del vicesindaco triestino che ha gettato nell’immondizia abiti e coperte di un senza tetto ha destato, per fortuna e per una volta, una qualche emozione e risposta pubblica. Reazioni invece del tutto assenti allorché periodicamente le ruspe, gialloverdi o di centrosinistra in egual modo e misura, sgomberano i campi di periferia dove rom e sinti sono costretti, seppellendo nelle macerie anche le loro povere cose. Del resto, anche nella civile Milano “col cuore in mano”, hanno denunciato i volontari, capita che la polizia e la nettezza urbana buttino nei cassonetti le coperte dei senza dimora, talvolta e paradossalmente distribuite dai servizi sociali del Comune stesso.
Lo stesso si può dire per la proposta del vicepremier Di Maio riguardo la vicenda dei 49 migranti bloccati per settimane in mare sulle navi delle ONG Sea Eye e Sea Watch, ovvero di accogliere solo donne e bambini, in tal modo smembrando le famiglie. Una proposta solo apparentemente un po’ meno crudele di quella del suo collega Salvini, attestato sul rifiuto totale e ad oltranza. Occorre sapere che a ogni sgombero di un campo rom, nel disinteresse generale, si pone l’identica questione, con la disponibilità dei Comuni di ospitare (naturalmente solo per breve tempo e in luoghi che è eufemistico definire di accoglienza) unicamente le madri e i piccoli figli, dividendo le famiglie e costringendo i padri e tutti gli altri alla strada.
Anche laddove non vi è quell’odio e quell’accanimento istituzionale verso poveri e migranti cui ci sta abituando l’attuale governo, infatti, trionfano annoiate burocrazie, idolatria della legge e umana indifferenza.
Lo chiamano decoro urbano. Nei fatti si tratta di pulizia etnica e sociale. Beninteso, in nome della pubblica sicurezza.
Fonte: Sergio Segio, Vita.it
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