Nella terra di nessuno dei valori, l’ostentazione del disumano in assenza di opposizione
Al punto più basso dei diritti umani nell’intera storia dell’Italia repubblicana, di fronte a un governo che alza come bandiera la propria ostentazione del disumano, dobbiamo constatare l’inedita assenza di un’opposizione politica. Opposizione morale sì, da parte di qualche sindaco coraggioso, di qualche vescovo fedele al vangelo, di qualche persona di buona volontà che non si arrende al deserto che cresce.
Ma sul piano politico il vuoto. Anzi un pessimo pieno, con una destra (FdI e FI) che sul terreno delle politiche securitarie e migratorie tende a scavalcare a destra la peggior destra di governo proponendo blocchi navali e politiche segregazioniste (leggetevi Libero e Il Giornale se siete di stomaco forte).
E QUELLA CHE FU LA SINISTRA che sul piano delle politiche sociali riesce ad essere persino peggio del governo difendendo austerità e legge Fornero, attaccando l’istituto stesso del reddito di cittadinanza, mettendosi al seguito degli impresentabili Commissari europei nell’assumere come dogmi i suicidi vincoli comunitari; mentre su quello delle politiche migratorie e della difesa della Costituzione manca totalmente di credibilità, delegittimata dalla propria stessa storia recente.
Si pensi a quanto accaduto alla Camera a fine anno, quando le esibizioni circensi di Emanuele Fiano in difesa della Costituzione platealmente umiliata dalla coalizione giallo-verde sono apparse a tutti grottesche, perché provenienti da chi quella stessa Costituzione aveva cercato di fare a pezzi con uno sciagurato referendum, e l’oltraggio alla discussione parlamentare l’aveva perpetrato compulsivamente (ricordate?) a colpi di canguri e voti di fiducia addirittura in materia di legge elettorale e revisione costituzionale.
O SI RIFLETTA SULL’ATTUALE caccia alle streghe nei confronti delle Ong, su cui il Pd è costretto a tacere dopo lo sciagurato «codice Minniti» che di quella damnatio boni aveva inaugurato la via. O, ancora, ci si soffermi sulla vicenda del cosiddetto decreto Salvini.
Possibile che nessuno abbia trovato nulla da eccepire (sia pur con il rispetto dovuto alla persona) alla scelta del Presidente della Repubblica di firmare senza se e senza ma quel testo indecente, palesemente in antitesi con i principi fondamentale della nostra Carta.
Se quel testo fosse stato rinviato alla Camere, o se almeno fosse stato accompagnato da un messaggio presidenziale con i necessari caveat, i «sindaci coraggiosi» non sarebbero stati costretti a quel ruolo di supplenza nella custodia della Costituzione che sarebbe spettato a figure istituzionali ben più in alto, incassando peraltro dal ceto politico di quella che illusoriamente continua a considerarsi «sinistra di governo» non una solidarietà piena, ma timidi balbettii, pieni di distinguo e di formalistici legalismi, come se il principio della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza fossero cose di cui vergognarsi anziché strumenti necessari in casi di emergenza umanitaria.
La ragione di tanto fariseismo se l’è lasciata scappare Stefano Folli sulle pagine del quotidiano d’area, Repubblica, definendo «l’iniziativa ribelle di Orlando, subito sostenuto dal napoletano de Magistris» discutibile, anzi deplorevole perché compiuta «in sfregio alle istituzioni», e pericolosa, perché – qui sta il vero nocciolo del discorso – creerebbero, con il loro richiamo alla coscienza e il loro radicalismo, «un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato che voglia risalire la china».
S’INTUISCE QUI, neppur tanto tra le righe, il profilo di un progetto politico che sta venendo avanti sotto traccia, per allusioni e illusioni, e che vedrebbe – in opposizione ai nuovi populismi – la costruzione di un fronte unito esteso dai malpancisti di Forza Italia ai vetero-progressisti del Pd, composto da tutti i pragmatici dell’esistente, dai rappresentanti di tutte le élites, di tutti gli interessi, da quelli un tempo incarnati dal partito azienda berlusconiano fino a quelli visibili nel parterre della Leopolda renziana.
È IN FONDO L’ESPERIMENTO che si sta tentando nel laboratorio-Torino in vista delle regionali del Piemonte, dove il governatore uscente Chiamparino sta lavorando a un «fronte del SI» aperto a tutti i fautori del Tav e in generale delle Grandi opere (al «partito degli affari», insomma).
E dove il neo-eletto segretario regionale Pd, Paolo Furia, ha scoperto gli altarini dichiarando, nella sua prima intervista in carica, che in questa fase politica «è giusto interloquire con la pancia delusa di Forza Italia» (proprio così, non con la testa, che sarebbe già inquietante, ma con la pancia, cioè con l’organo più vorace), soprattutto se «la Lega continuerà a governare con i 5 Stelle» (che sono selezionati evidentemente come il «nemico principale», molto meno allarmante dello xenofobo Salvini e dei suoi pragmatici giannizzeri).
Paolo Furia è considerato esponente della «sinistra» del Partito (figuriamoci gli altri!). La sua vittoria sul renziano Mauro Marino è stata salutata come una svolta.
Ciò non toglie che utilizzerà la nuova adunata del 12 gennaio dei Si Tav – che con coazione a ripetere si sono dati di nuovo appuntamento in Piazza Castello, con tanto di madamine, notai e banchieri, industriali e commercianti – come apertura della lunga campagna elettorale per “rimontare la china” (come dice Folli).
IL FATTO È CHE NEL CORSO del lungo ciclo di sistematico taglio delle radici la sinistra ha via via decostruito l’intero proprio patrimonio culturale, politico e morale giungendo infine a questo «punto zero» dei valori e dell’identità, in cui la cultura diventa vizio salottiero e la morale viene stigmatizzata come moralismo, mentre l’unico metro di giudizio diventa il potere (potere senza egemonia, potere senza coscienza, infine potere senza potere, emblema di una sinistra incosciente e inconsistente, priva di radicamento sociale e di orizzonte ideale).
In questa terra di nessuno dei valori, ricostruire un’articolazione tra l’opposizione morale – che resiste ma stenta a esistere – e un’opposizione politica che non c’è più e richiede una ricostruzione ab imis, diventa impellente e vitale.
Con molta probabilità, a riempire quello iato tra etica e politica ci proverà la Chiesa, l’unica a conservare il senso della «coscienza» e delle obiezioni ad essa connesse, e a non risolvere l’idea di giustizia nella lettera della legge.
MA SAREBBE IMPRESA piena di rischi (sarebbe un ritorno di confessionalismo, etico certo, ma pur sempre confessionale) e non sarebbe indolore anzi, comporterebbe una concreta possibilità di scisma che allargherebbe il cratere in cui ci dibattiamo anziché bonificarlo.
Per questo la cultura laica non può chiamarsi fuori. Rivisitare la vecchia «questione morale» che funzionò a suo tempo come emblema di diversità, adeguandola al nuovo mondo, nell’affermazione della centralità dei diritti umani universali e della fraternità sociale, è una delle vie per uscire dal labirinto della paura e dell’impotenza in cui ci siamo cacciati. Prima che l’eterno Minotauro ci divori.
* Fonte: Marco Revelli, IL MANIFESTO
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