Il film su Pepe Mujica, 12 anni di resistenza in carcere

by Silvana Silvestri * | 10 Gennaio 2019 11:17

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È stato l’anno di Pepe Mujica quest’anno alla mostra di Venezia: sull’ex presidente del Venezuela che ha abbassato la povertà del paese al 9% si sono visti due film e la sua stessa presenza ha trasmesso moniti sulla responsabilità di tutto l’occidente nei confronti della povertà nel mondo, sulla necessità di creare un «piano Marshall» per l’Africa. Mentre Kusturica ha realizzato un documentario folgorato dal presidente che guidava il trattore e donava il 70% del suo salario ai poveri, nella sezione Orizzonti è stato programmato il film ora nelle sale, Una notte di 12 anni, (La noche de los 12 años) del regista e produttore uruguayano Alvaro Brechner, film di genere carcerario, ma che racconta un fatto finora molto poco conosciuto, le autentiche vicende di eccezionali personaggi, Mujica e i suoi compagni Tupamaros arrestati durante il periodo della dittatura militare in Uruguay (1973-1985). «Mi presero – raccontava Mujica – perché non ero veloce, non ero atletico, non perché avevo voglia di fare l’eroe».

BRECHNER ricostruisce nel film dopo aver raccolto per anni investigazioni e testimonianze, la vera storia della detenzione contro ogni rispetto dei diritti umani dei tre compagni di lotta del Movimiento de liberación Nacional, Pepe (il futuro presidente Mujica), Neto (Eleuterio Huidobro) diventato poi ministro della difesa, da poco scomparso, Ruso, il poeta Mauricio Rosencrof, interpretati rispettivamente dall’attore spagnolo Antonio De La Torre, Alvaro Tort (era in Whisky) e Chino Darín (il figlio del grande attore argentino Ricardo Darín). Nel film si seguono solo i tre ostaggi, nella realtà la vicenda è stata vissuta da nove detenuti divisi in tre gruppi.

Parlare di genere carcerario è riduttivo, poiché la loro detenzione fu piuttosto una lunghissima forma di tortura, fece parte di un esperimento di azzeramento della personalità, con il preciso obiettivo di portarli alla pazzia. I dodici anni si riferiscono infatti alla loro carcerazione in completo isolamento in luoghi sempre diversi senza poter comunicare, praticamente senza cibo, luce, acqua, luoghi degni delle segrete medievali.

DALLA LUNGA lotta per non impazzire uscirono vincitori e il film li mostra in un crescendo di grande umanità lungo quegli anni di isolamento, in scene all’apparenza vuote riempite con abilità, dove l’insegnamento principale è la necessità di resistere a tutti i costi, inventando sempre diversi modi di comunicare attraverso spessi muri, trovando il modo di rimanere esseri umani. E con il pensiero, una volta usciti, di continuare a lottare per la giustizia sociale.

Il regista nei suoi precedenti film ha mostrato di elaborare riferimenti letterari, come Onetti (Mal dìa para pescar), qui si muove nell’ambito dell’assurdo, dell’humour paradossale, del sentimento, pur restando imbrigliato in qualche modo dalle regole del genere, oltre che carcerario, anche politico. In fondo probabilmente è vero che un’esperienza così non si può raccontare: neanche Pepe Mujica a Venezia ha voluto parlare dell’epoca della detenzione, indicando quelle esperienze ferite profonde da rispettare.

Quello che rende il film importante, oltre all’intero impianto artistico di grande livello, è che si tratta di una manifestazione di lavoro sulla memoria che coinvolge da anni tutto il continente latinoamericano, ma da parte di un paese come l’Uruguay dove ancora non si sono fatti i conti con il passato, al contrario di Argentina o Cile e dove resta in sospeso la questione dei desaparecidos e latitano i processi ai militari.

* Fonte: Silvana Silvestri, IL MANIFESTO[1]

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