Dietrofront di Trump: il ritiro Usa dalla Siria non è più immediato

by Chiara Cruciati * | 2 Gennaio 2019 10:00

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Le bandiere a stelle e strisce che sventolano ancora sui veicoli militari a Manbij, nel nord della Siria, sono l’immagine plastica della politica estera al tempo di Donald Trump. Dopo aver annunciato, dieci giorni fa, «l’immediato ritiro» Usa dal paese, ieri con un altro tweet ha fatto sapere al mondo e ai siriani che non sarà poi così immediato: non più 30 giorni, ma quattro mesi per lasciare la Siria, ha detto il presidente più ondivago di sempre.

Una decisione non da poco, visto che nel frattempo gli altri attori in campo si stanno organizzando in vista della dipartita dei marines. Se prima il timore era quello di un imbarazzante faccia a faccia con le forze militari turche presenti nella parte occidentale della regione a maggioranza curda Rojava, ora è Damasco a dispiegare i propri uomini su richiesta curda: il vis-à-vis da imbarazzante diverrebbe esplosivo.

Tutti a Manbij: i marines che non se ne vanno, i governativi siriani che arrivano, le unità curde di difesa che restano e i soldati turchi che minacciano l’invasione. Così non sarà: il presidente turco Erdogan, che Trump ha imparato a conoscerlo bene, ha sospeso quella che sembrava un’operazione immediata contro l’est dell’Eufrate in attesa di capire cosa sarebbe effettivamente successo. Rojava resta con il fiato sospeso, con quattro mesi in più per organizzare la resistenza a un’eventuale invasione.

E al contingente Usa sarà dato il tempo di organizzare il ritiro di uomini ed equipaggiamento militare: cosa trasferire su altri fronti mediorientali e cosa lasciare agli alleati (e soprattutto a quali alleati: ai curdi perché li usino contro la Turchia? Sarebbe la rottura definitiva tra i due principali eserciti della Nato).

L’anno si apre così con nuove fonti di confusione intorno alla politica mediorientale della Casa bianca. Avversato in casa per aver ordinato il ritiro – critiche che il capo del Pentagono James Mattis ha reso concrete dimettendosi – Trump prova a tenere botta cambiando idea anche sullo Stato Islamico: «È quasi scomparso», ha scritto nel tweet di ieri, quando 10 giorni fa lo classificava già tra i brutti ricordi.

In attesa di capirci di più, i due convitati di pietra nella testa di Trump, Turchia e Siria, prendono le loro misure. L’esercito governativo, su richiesta curda, si è mosso verso Manbij circondandola su tre lati, a sud, est e ovest, dopo che i miliziani di opposizione legati ad Ankara hanno iniziato a dispiegarsi fuori dalla città. Damasco ha inviato la guardia repubblicana e due divisioni, dopo che le Forze democratiche siriane (la federazione multi-etnica e multi-confessionale, guidata dalle unità curde) ha trasferito all’esercito governativo il controllo della diga di Tishrin, riconquistata nel dicembre del 2015 durante la liberazione di Kobane dall’occupazione dell’Isis.

La Turchia non resta a guardare: il 2019 è stato inaugurato dalla visita del ministro della Difesa, Hulusi Akar, alla tomba di Süleyman Shah, nel nord della Siria, occupata dall’esercito turco nel febbraio 2015. Da lì Akar ha ribadito quella che è la convinzione del governo simil-ottomano di Erdogan: la sovranità della tomba è turca, una sovranità che nella visione del «sultano» si allarga a tutta Rojava.

* Fonte: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO[1]

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