Pepe Mujica: «Il capitale ha reso il mondo più povero e più diseguale»

Pepe Mujica: «Il capitale ha reso il mondo più povero e più diseguale»

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È un carisma pacato quello di Pepe Mujica, ex combattente per la democrazia, ex presidente dell’Uruguay, ex prigioniero politico. Colpisce immediatamente la forza interiore che emana, placida e tenace, da quest’uomo semplice con la saggezza di un Nelson Mandela.
Come il leader africano, Mujica ha passato molti anni in prigione, 12 per l’esattezza ai tempi in cui coi Tupamaros si batteva per la libertà del proprio paese. È l’argomento di un film, La Noche de 12 Años, di Alvaro Brechner, presentato quest’anno a Venezia (Orizzonti) e selezionato come film urugayano concorrente all’Oscar.

A 82 anni Mujica, il capo di Stato più umile, vive in austero buen retiro nella sua fattoria alternando la guida del trattore a quella del maggiolino dell’87 per cui è noto. L’affetto di cui è oggetto in patria lo ha seguito a Venezia, dov’era protagonista del documentario El Pepe, una vida suprema, di Emir Kusturiça. Sul Lido le folle in attesa di entrare nei cinema solevano prorompere in applausi spontanei al suo passaggio, anche se lui caratteristicamente insiste, «la fama è solo una frottola, in questo mondo ce ne andiamo come siamo arrivati». Lo abbiamo sentito via Skype.

Cosa pensa dell’ondata reazionaria che investe il mondo?

Mi preoccupa e credo sia il prezzo indiretto che parte dell’umanità sta pagando per la globalizzazione spinta dal capitale transnazionale e da un sistema finanziario troppo vorace, un modello che ha in gran parte congelato i redditi delle classi medie. I ceti medi hanno cessato di crescere e questo ha dato luogo a una grande frustrazione da parte di chi, invece di cercare le responsabilità in alto, incolpa capri espiatori subalterni. Così la colpa diventa dei messicani o degli africani, dei siriani. Si finiscono per ignorare le vere cause: le economie transnazionali e il modo in cui concentra la ricchezza a scapito della maggioranza.

Come si manifesta il fenomeno in America latina e come va affrontato dalla sinistra?

Noi veniamo da molto lontano, avevamo molta gente affamata e senza riparo o con dimore miserabili. In parte siamo riusciti ad aiutarli e a farne dei buoni consumatori ma non necessariamente a trasformarli in cittadini. Quello è un processo assai lento. È più facile sfamare qualcuno, pur con tutte le difficoltà che comporta, che risolvere la questione delle coscienze. Insistere nel consumare ai livelli del mondo sviluppato senza aver risolto molti problemi di base porta a contraddizioni brutali e crea per noi un’immensa dipendenza. Il mondo sviluppato ha cominciato a progredire 200 anni prima di noi, con molti sacrifici sostenuti dai lavoratori che lavoravano 12-14 ore al giorno, poi con la capitalizzazione derivata dal colonialismo e lo sfruttamento. Noi siamo arrivati tardi, rincorriamo da dietro, ma non tutto è perduto. Nessun temporale dura per sempre. Non credo che l’estrema destra, malauguratamente, farà altro che concentrare ulteriormente la ricchezza. Dovremo imparare a essere meno tonti e più pazienti. I termini «destra» e «sinistra» sono accezioni moderne. La realtà è che solidarietà e conservatorismo sono forze contrapposte da che ci sono gli uomini sulla terra.

Il vicino settentrionale dell’Uruguay è l’ultimo paese ad aver sterzato a destra. Che consiglio darebbe ai brasiliani per i prossimi quattro anni?

Io credo che il popolo brasiliano troverà il modo per resistere e salvare il meglio di sé e forse le previsioni si riveleranno peggio della realtà. Vorrei sapere come risolveranno alcune lampanti contraddizioni, quella ad esempio di avere un ministro dell’economia iper liberista che dovrà mediare con la borghesia di San Paolo, il gruppo più protezionista del Sud America. Vedremo. Le parole sono una cosa, ben altri i fatti.

Nell’era di Trump e Bolsonaro è ancora possibile per un politico essere efficace e allo stesso tempo integro e idealista?

Apparentemente la cultura in cui siamo immersi, non quella che insegnano a scuola ma quella subliminale, del marketing, ci insegna che chi non diventa ricco è un fallito. Non ci dovremo sorprendere se prolifera il modello del leader-tycoon. Bisogna rendersi conto che si raccoglie ciò che si semina. Ci saranno sempre anche i sognatori e i fondamentalmente onesti che spingono per migliorare l’umanità. È difficile realizzare del tutto un sogno, ma occorre continuare a salire come su una scala su cui ogni tanto si rompe un gradino: allora bisogna fermarsi a ripararlo e poi proseguire. Il successo nella vita è rialzarsi e riprendere il cammino quando si cade.

Le sembra ci sia oggi un paese con la capacità e la visione per unire l’America latina?

Credo che l’America latina sia un gruppo di nazioni a cui manca ancora la capacità di realizzare una patria comune. Ma non potremo esistere se non avremo la capacità di superare le differenze e costituire un corpo comune. Perché il mondo, pur con tutti i contrattempi e le false partenze, marcia inesorabilmente verso un realtà di grandi conglomerati. O un giorno sapremo unirci o saremo disfatti, è questa la nostra sfida, ma tutti abbiamo le nostre sfide. Quando riusciranno gli Stati uniti ad accettare di essere una nazione bilingue e riconoscere i propri cittadini latinoamericani e capire che dal nostro senso di identità dipende anche il loro? Non è facile.

Cosa pensa degli eventi sulla frontiera che divide questi due mondi e l’ipersviluppo americano dal Sud America?

Alla fine della prima guerra mondiale le condizioni imposte alle nazioni sconfitte furono tali che il giovane Keynes disse: «È orribile e scatenerà un disastro». E così fu. Dopo la seconda guerra mondiale la lezione era stata recepita e la risposta fu il piano Marshall – sostenere l’Europa per contrastare l’orso sovietico. Gli Stati uniti hanno un problema analogo, assistere e sostenere il Centro America sarebbe una grande risposta. Invece ciò che sta accadendo sarebbe ridicolo se non fosse tragico. Spenderanno una fortuna sul confine per dire «No!» a gente di cui hanno bisogno – chi farà le pulizie dei ricchi? Chi lavorerà la terra? Chi stura le tubature? Per piacere! Per questo quello che sta avvenendo mi sembra drammaticamente ridicolo.

Qual è la situazione in Uruguay?

L’attuale presidente è un vecchio amico e sta facendo quello che può. Non abbiamo bacchette magiche o antidoti universali. Quello che so per certo è che le repubbliche moderne sono nate gridando alle monarchie divine e agli antichi feudalesimi che tutti gli uomini erano fondamentalmente uguali. Ora la battaglia non può essere semplicemente per ottenere una maggioranza di voti se non esiste anche una condivisione delle speranze e delle frustrazioni di quella maggioranza. Per essere più chiaro: credo fermamente che i leader dovrebbero vivere come la maggior parte dei loro popoli e non soccombere a nostalgie feudali e velleità da monarchi, circondati da cortigiani. Occorre tornare alle radici del repubblicanesimo, e non è facile.

In molti paesi si prospetta un ritorno a regimi dittatoriali simili a quello che lei ha combattuto passando 12 anni in prigione. Cosa ne pensa?

Ci sono molte dittature sul pianeta. Quelle che abbiamo avuto nel nostro continente hanno la loro storia e le loro cause, dovremmo mantenerne la memoria: la vita mi ha insegnato che può sempre andar peggio. Difendere una democrazia, per iniqua e difettosa che sia, vale sempre la pena. La storia insegna che non si può rimanere neutrali. Per questo mi duole enormemente dover constatare la crescita della disuguaglianza e la concentrazione sempre più enorme di ricchezza e potere politico. Siamo sulla soglia di una rivoluzione tecnologica che sta mettendo a punto strumenti che permetteranno presto di penetrare nelle coscienze e pilotare la mente delle grandi masse. Nessuna dittatura nella storia ha disposto di strumenti simili. La battaglia è lungi dall’essere finita, tutti dovremmo esserne parte. Io sono molto vecchio ma spero ancora nel genere umano. O forse sono solo sogni miei…

* Fonte: Luca Celada, IL MANIFESTO



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