Messico. Comincia oggi l’era di Obrador, detto «l’uovo del serpente»
Una svolta storica. Obrador promette la “quarta trasformazione” del paese dopo l’indipendenza di Hidalgo, la riforma di Benito Juarez, la rivoluzione di Villa e Zapata
Il 1. dicembre finisce “el año de Hidalgo, chingue a su madre el que deje algo”. E non c’entra il padre della patria Miguel Hidalgo, a cui era dedicato quel brindisi che invitava a non dejar algo, non lasciare nulla nel bicchiere. C’entra la peculiare tradizione messicana per cui ogni politico al termine del mandato saccheggia tutto il saccheggiabile, dall’ultimo grande appalto ai rubinetti del bagno, e poi chiude la porta – se non ruba anche quella. Negli ultimi cinquant’anni l’año de Hidalgo è diventata prassi politica consolidata, diritto consuetudinario, poco o per nulla perseguito perché fino a poco tempo fa presidente uscente ed entrante appartenevano allo stesso partito, il favoloso ossimoro chiamato Partido revolucionario institucional. È andata così per 70 anni. Ora si cambia, dicono. È arrivato Andres Manuel Lopez Obrador.
La biografia del nuovo presidente del Messico e quella del suo drammatico paese raccontano bene l’evoluzione di una politica iniziata scrivendo pagine di storia e finita nella cronaca nera, l’ammaloramento di una rivoluzione. Quando Andres Manuel Lopez Obrador nasce nel ’54 a Tlalpan, nello stato meridionale di Tabasco, il Messico a suo modo socialista forgiato da Lazaro Cardenas ha una ventina d’anni, le multinazionali del petrolio sono state cacciate e i pozzi nazionalizzati, la democrazia autoritaria del partito-stato Pri è in pieno sviluppo. Quando il giovane Obrador si laurea in scienze politiche esiste un solo partito, il Pri, e il tabasqueño prova a farlo suo. Non ci riuscirà. Quando nel 1988 il figlio di Lazaro Cardenas, Cuauhtemoc, abbandona il Pri ormai inguardabile e fonda la speranza democratica, il Prd (Partito della rivoluzione democratica), Obrador è tra quelli che lo seguono, non tutti armati di oneste intenzioni.
Nel 1990 Cardenas junior sfida l’establishment alle presidenziali, l’uomo del Pri è Carlos Salinas de Gortari, forse il peggio che il vecchio Partito rivoluzionario abbia mai espresso. Nella notte si contano i voti, Cuauhtemoc è in testa… e salta la luce. Caida del sistema è l’eufemismo con cui il Pri battezza il suo primo enorme broglio elettorale: quando torna la corrente Salinas è primo e lo resterà. I riformatori ci riprovano nel 1994, mentre il Messico è sconvolto dalla crisi economica, l’”effetto tequila” terrorizza i mercati mondiali e il Pri è ormai diventato un mostro il cui dibattito politico si svolge a rivoltellate: il candidato riformatore Colosio viene freddato a colpi di 38 special durante un comizio, pochi mesi dopo sparano e uccidono il presidente del partito Ruiz Massieu, la paura riempie le urne del Pri e alla presidenza sale lo sconosciuto Ernesto Zedillo, selezionato con la vecchia pratica del dedazo ossia indicato a dito dal presidente Salinas, ormai in fuga verso gli ospitali Stati uniti.
Nel Tabasco, a Obrador accade come a Cardenas: è in testa in ogni sondaggio ma dalle urne esce il priista Roberto Madrazo. Un altro broglio e non sarà l’ultimo, mentre sui monti del Chiapas si affaccia un diverso tipo di speranza, porta passamontagna e fucile ma spara poco e parla molto, il suo portavoce diventa un’icona planetaria. Si fa chiamare Subcomandante Marcos.
Nel 2000 Cuauhtemoc ci riprova ma è una candidatura esausta, e il Prd ha imbarcato tali e tanti riciclati da esserne geneticamente modificato. Non servono neanche i brogli, contro un Pri a sua volta esausto la spunta l’uomo della destra liberista, il dirigente della Coca Cola Vicente Fox, e il suo Pan (Partido de accion nazional). Dopo settant’anni il Pri cede la presidenza e sembra chiudersi una storia iniziata con Pancho Villa e Emiliano Zapata. Ma Fox non è politicamente così diverso dai predecessori.
Obrador intanto si è candidato a governatore del Distrito federal, il territorio della capitale Città del Messico. Dall’enorme metropoli viene un quarto del pil del paese, vi risiedono 9 milioni di messicani e altri milioni nella cintura urbana. Obrador vince, e bene. Ormai lo chiamano Amlo oppure el peje, dal curioso e bruttissimo animale che popola le acque salmastre del Tabasco, il peje lagarto, qualcosa tra ittico e rettile dall’aspetto paleolitico. È una consacrazione, ma di quelle difficili. Al lavoro alle 6 del mattino, ogni mattina. Abolita l’auto blu, si sposta su una vecchia Nissan. Si riduce lo stipendio. Vara piani di welfare per gli anziani e di scolarizzazione per i giovani, traccia autostrade in quell’incubo urbano che è il traffico di Città del Messico – è proprio in quegli anni che dalla Volkswagen di Puebla esce l’ultimo escarabajo, l’immortale Maggiolino i cui fumi non catalizzati avvelenano la capitale a decine di migliaia – e progetti di restauro del magnifico e disastrato centro storico, in collaborazione con il re delle telecomunicazioni Carlos Slim, uno che da solo vale il pil di uno stato minore del G20.
Nel 2005 si dimette per affrontare le presidenziali. Di fronte ha di nuovo Roberto Madrazo, come sedici anni prima nel Tabasco, e lo spento panista Felipe Calderon. Ed è subito broglio: con una progressione aritmetica perfetta i 10 punti di vantaggio del primo rilevamento diventano cinque, tre, uno… Nella notte Calderon chiude davanti di mezzo punto. È una truffa e lo sanno tutti, ma ormai è pratica diffusa e sdoganata: poco più a nord, qualche anno prima, a Al Gore era accaduta la stessa cosa.
Lopez Obrador ci riprova nel 2012, più moderato, tanto che il Subcomandante Marcos in uno dei suoi lunghissimi articoli lo definisce “l’uovo del serpente”, un neoliberista travestito – ma non è più il Marcos che portava un milione di militanti nell’enorme zocalo capitalino, la piazza centrale di Città del Messico. Amlo riperde contro i soliti noti, e non serve a niente portare in tribunale le carte di credito prepagate Monex con cui il Pri ha comprato un bel po’ di voti per il suo uomo, Enrique Peña Nieto: la sentenza (colpevoli) arriverà solo nel 2017. Ma Obrador non l’ha attesa.
Dopo l’ennesima sconfitta fraudolenta dice addio al Prd, arma un vero grande movimento di protesta, organizza un governo parallelo, trasforma l’associazione civica Morena (Movimento di rigenerazione nazionale) in un partito vero e proprio e ingaggia una battaglia contro la corruzione, il potere sopraffattore della politica, l’ingombrante presidente degli Stati Uniti. Mentre i narcos messicani instaurano un sanguinoso feudalesimo che liquida l’esercito schierato dal presidente Peña Nieto – oltre 30mila morti lo scorso anno, mai così tanti, tanti quanti i morti dell’intera dittatura militare in Argentina – el peje batte il paese volando in classe turistica, spostandosi in camper e autobus, senza altra scorta che l’autista di turno.
Questa volta è una marcia trionfale, mai nessuno aveva vinto con tanto margine, non c’è broglio che tenga, in parlamento Morena ha la maggioranza e Lopez Obrador promette la “quarta trasformazione del Messico” dopo l’indipendenza di Hidalgo, la riforma di Benito Juarez, la rivoluzione di Villa e Zapata. Tutte rivolte armate.
* Fonte: Roberto Zanini, IL MANIFESTO
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