Violenza contro le donne e prevaricazione patriarcale, terribili cifre
Nel mondo, una donna su tre, vive violenza fisica o sessuale da parte, principalmente, del proprio partner. L’Organizzazione mondiale della sanità la chiama «la più diffusa e meno segnalata delle violazioni dei diritti umani». L’analisi dell’Oms, seppure sia preziosa perché arriva alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza maschile alle donne, conferma e solleva un problema più cogente. Non si tratta infatti di una contingenza storica bensì di una strutturale prevaricazione di un sesso su un altro.
Recuperare i dati relativi alle violenze è specchio drammatico del presente, ma dice anche la temperatura, sociale e politica, dell’umano. In questo caso, di un rapporto che è di dominio e di morte, nei casi di femminicidio. Ai dati dei vari rapporti, mondiali, europei e dei singoli paesi, si dovrebbe fare un distinguo su quelli ufficiali e gli altri forniti dalle associazioni e dalle numerose reti che lavorano alacremente e quasi senza un centesimo nelle varie zone del mondo. Infine, nonostante questi incroci, amaramente si può constatare che oggi nella manifestazione nazionale di Non Una Di Meno – che in queste ore attraverserà le strade di Roma, come le altre «sorelle» che andranno a sfilare in altri continenti – non si potrà mai rendere l’intero del fenomeno.
IN UN FONDO GRIGIO si muovono moltissimi episodi che per diverse ragioni non arrivano neppure alle statistiche. Va comunque riconosciuto che tutti i monitoraggi messi in atto, seppure imperfetti o da verificare e ulteriormente incrociare, sono espressione di un tentativo di sostegno per quante intendano uscire dalla violenza. Così succede nel caso delle linee previste dalla Convenzione di Istanbul in cui si inserisce, fra le altre cose, la «helpline» a cui ha aderito anche l’Italia con l’attivazione del numero verde 1522, strumento per sostenere e aiutare chi subisce violenza e stalking. Anche di questi dati, imponenti, si occupa la prima indagine Istat in collaborazione con il Dipartimento Pari Opportunità, Regioni e Cnr, a proposito dei servizi offerti dai centri antiviolenza alle donne vittime di violenza maschile. È un esordio importante che interroga una riflessione politica poiché a emergere dal corposo dossier reso fruibile da ieri tramite il sito dell’Istituto nazionale di statistica, è l’istantanea di un 2017 terribile.
COMPOSTO da diverse sezioni, l’indagine comprende una serie di relazioni, infografiche, tavole e tabelle che si spingono fino al 2018, là dove vengono forniti i primi report possibili; è il caso dei dati relativi al numero verde antiviolenza che da dicembre 2012 arrivano fino a maggio 2018. Di pochi giorni fa è il rapporto dei Centri antiviolenza Di.Re. (restituito sulle pagine di questo giornale il 16 novembre) da cui risultavano più di 20mila le donne che si sono rivolte nel 2017 alle oltre 85 strutture del network sparse sul territorio. Dal rapporto Istat sono 49152; si potrebbe arrotondare per eccesso o difetto, invece è bene, soprattutto in questo caso, avere contezza che si tratta di singole storie, di esperienze in cui a essere stata vissuta sulla propria pelle è una forma di violenza maschile. Più della metà delle donne ha poi cominciato un percorso di uscita dalla violenza.
A ESSERE interpellati dall’Istat, 281 centri antiviolenza di cui 253 hanno restituito il questionario completo. Un terzo dei Centri è presente al sud Italia, poco meno della metà del numero totale è invece al nord, al centro il 16% mentre Sicilia e Sardegna l’8%. Quasi il 70% delle strutture è reperibile h24 con un lavoro dunque importante svolto dalle operatrici che vengono formate appositamente, spesso da corsi interni alle stesse strutture, e che accolgono le prime telefonate. Le donne possono usufruire anche di supporto legale, psicologico, orientamento ad altri servizi insieme a quello molto prezioso al lavoro, un percorso di allontanamento, supporto alloggiativo e ai figli minori. Quando i Centri non hanno infatti risorse sufficienti la rete territoriale (l’86% dei Centri è in relazione con altre strutture) si occupa dei singoli punti. Il 56% delle operatrici (4400 nel 2017) ha svolto questi delicati compiti in forma volontaria. Se è giusto, oltre che rilevante, assumere la battaglia dell’antiviolenza come una forma della politica attiva, è pur vero che bisognerebbe domandarsi perché i Centri antiviolenza non siano supportati, avvantaggiati e finanziati con misure ulteriori. È un problema delle istituzioni che tuttavia ricade sulle vite delle donne. Quelle stesse donne che possono comunque contare su più salde alleanze relazionali, ogni volta che varcano la soglia di un Centro antiviolenza.
* Fonte: Alessandra Pigliaru, IL MANIFESTO
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