by Eleonora Martini * | 16 Novembre 2018 10:01
«Il fatto non costituisce reato». Dopo quasi sei ore di camera di consiglio, la Corte di Cassazione ribalta la sentenza d’Appello del 19 ottobre 2017 che aveva confermato la condanna di primo grado per omicidio colposo dei tre carabinieri che nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 arrestarono Riccardo Magherini. Rigettata dunque anche la richiesta del Procuratore generale della Cassazione, Felicetta Marinelli, che nella sua requisitoria aveva sostenuto la possibilità di salvarsi, per l’ex calciatore delle giovanili della Fiorentina morto a 40 anni durante l’arresto nel centro storico di Firenze, se solo i tre militari che lo hanno schiacciato sul selciato, prono, a torso nudo, con i polsi ammanettati dietro la schiena, e lo hanno anche colpito, «lo avessero messo in posizione eretta». Così, aveva ripetuto la pm, «avrebbero permesso i soccorsi e con elevata probabilità la morte non si sarebbe verificata».
Ma i giudici della Cassazione, con un pronunciamento tanto clamoroso quanto inaspettato, hanno dato invece ragione alla difesa dei tre carabinieri Vincenzo Corni, Stefano Castellano e Agostino della Porta, annullando le condanne a 8 mesi di reclusione per il primo e 7 mesi per gli altri due. «Non so che dire, mi casca il mondo addosso», sono le prime parole che il padre di Riccardo, Guido Magherini, è riuscito a pronunciare appena appresa la notizia.
Bisognerà leggere le motivazioni della sentenza ma a caldo sembra comunque che i giudici abbiano ritenuto valida la linea di difesa dei tre militari – che sono ancora in servizio anche se trasferiti ad altra sede – fondata sostanzialmente sull’affermazione che i tre uomini dell’Arma non potevano essere accusati di omicidio colposo perché privi di conoscenze mediche. «Non avevano elementi per capire quello che stava accadendo a Magherini a causa dello stupefacente – aveva spiegato l’avvocato Francesco Maresca, uno dei legali della difesa – Magherini è morto per una serie di concause, tra cui anche la sofferenza per la posizione prona, ma era necessario bloccarlo, e i carabinieri non potevano capire se era il momento di metterlo a sedere». L’avv. Maresca si è detto infine soddisfatto e felice «che la Suprema Corte avvia fatto giustizia di tante contestazioni prive di giustificazioni».
I giudici infatti hanno respinto il punto di vista della procura generale secondo la quale il decesso «è stato determinato dall’elevato tasso di cocaina, da asfissia e dallo stress dovuto all’assunzione di cocaina e al tentativo di liberarsi dalla posizione prona in cui lo tenevano i carabinieri». In questo contesto, secondo la magistrata, i carabinieri, che «avevano una posizione di garanzia perché lo stavano arrestando», «avevano l’obbligo di tutelarlo». Anche se «non sapevano che Magherini avesse assunto cocaina», i militari erano comunque «ben consapevoli dell’alterazione psico-fisica, e se l’avessero liberato dalla posizione prona quando aveva dato i primi segnali di calma e manifestato affanno, l’uomo avrebbe potuto essere soccorso», e salvato.
E invece quella notte Riccardo Magherini – che era «alterato gravemente e soprattutto palesemente», come avevano scritto nelle motivazioni i giudici dell’Appello – chiedeva aiuto e ripeteva «vi prego, ho un figlio», e «sto morendo». La scena era stata filmata da alcuni residenti di Borgo San Frediano, ma secondo la difesa ai carabinieri era sembrato uno stratagemma dell’uomo per liberarsi.
L’avvocato Fabio Anselmo, legale dei familiari di Magherini, aveva invece chiesto di annullare la sentenza sì, ma per celebrare un nuovo processo per il reato di omicidio preterintenzionale a carico dei carabinieri, affinché venisse contemplato «l’evento morte come conseguenza del reato di percosse». Già la procura generale però aveva chiesto di rigettare la richiesta, considerando invece che i colpi e i calci ricevuti da Magherini «non hanno avuto rilevanza nella morte».
In aula, accanto agli amici di Riccardo e alla famiglia Magherini, era presente anche Ilaria Cucchi, in rappresentanza dell’associazione Stefano Cucchi onlus che si occupa dei soprusi delle forze dell’ordine. «Vogliamo che il suo nome sia rivalutato – aveva sperato il padre di Riccardo – Hanno fatto di tutto per farlo apparire come un delinquente».
* Fonte: Eleonora Martini, IL MANIFESTO[1]
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