Roberto Fico rompe i rapporti con il parlamento egiziano: «Nessuna svolta».

by Chiara Cruciati * | 30 Novembre 2018 9:09

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Sette gli indagati dalla Procura di Roma per il sequestro di Giulio Regeni

Il presidente della Camera Roberto Fico ha concesso due mesi e dieci giorni allo Stato egiziano per dare una svolta vera, concreta, alle indagini sul rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni. Tempo sprecato, come dimostrato dall’ultimo incontro tra procura di Roma e procura generale egiziana.

E Fico ha reagito: «Con grande rammarico annuncio ufficialmente che la Camera sospenderà ogni tipo di relazione diplomatica con il parlamento egiziano – ha detto ieri – fino a quando non ci sarà una svolta vera nelle indagini e un processo che sia risolutivo». «A settembre sono andato al Cairo – ha aggiunto – Avevo detto sia al presidente al-Sisi che al presidente del parlamento egiziano che eravamo in una situazione di stallo. Avevo avuto delle rassicurazioni, ma ad oggi non è arrivata nessuna svolta».

Il presidente della Camera fa quello che tre governi non hanno fatto, far pagare all’Egitto il prezzo – seppur simbolico – di quasi tre anni di silenzi e depistaggi, tre anni pieni di altri Giulio Regeni egiziani. È vero che nell’aprile 2016, a due mesi dal ritrovamento del corpo del giovane ricercatore, l’allora governo Renzi richiamò l’ambasciatore ma i rapporti economici, militari e politici non sono mai venuti meno. Fino al rientro del nostro rappresentante al Cairo, alla vigilia di ferragosto 2017, senza che nulla fosse stato archiviato.

Così, dopo la «rottura» della Procura di Roma che ha deciso di indagare sette sospettati da sé per superare la volontaria apatia degli inquirenti egiziani, ieri è stato Fico ad alzare la voce come ha fatto il 17 settembre al Cairo: i depistaggi hanno ucciso Giulio due volte, aveva detto dopo l’incontro con il presidente al-Sisi, per poi chiedergli di svelare il sistema che lo aveva ammazzato. Un problema politico per il generale golpista che su quel sistema di repressione istituzionalizzata fonda il suo potere.

E un problema concreto: dal 1999, con la firma del protocollo di collaborazione, la Camera dei Deputati e l’Assemblea del Popolo egiziana hanno dato vita a un gruppo di cooperazione parlamentare che prevede incontri annuali su questioni bilaterali, regionali e internazionali. Il protocollo prevede riunioni periodiche di organi formati da deputati dei due paesi che svolgono un ruolo nel mantenere i rapporti tra i due governi, soprattutto in concomitanza di vertici intergovernativi.

Nel primo pomeriggio di ieri i capigruppo della Camera hanno accettato all’unanimità la decisione del presidente. Che non è piaciuta invece al primo ministro Conte, su cui la notizia è piovuta in testa mentre arrivava al G20 di Buenos Aires: «Non ho parlato con Fico. Non so per quale ragione ha deciso». Conte si pone interrogativi sulla «ragione», come non fosse chiara a chiunque abbia a cuore la questione. Poche ore prima aveva parlato il ministro dell’Interno Salvini, secondo cui «il governo e il parlamento stanno facendo il massimo, purtroppo governiamo in Italia e non in Egitto».

Eppure è proprio in Italia che la risposta manca: se si stesse facendo il possibile, le relazioni – di ogni tipo – con un paese che viola i diritti umani e massacra con fame e repressione il suo popolo sarebbero stati già interrotti. L’altro vice premier, Luigi Di Maio, esponente dei 5Stelle come Fico e protagonista di una visita al Cairo ai limiti dell’assurdo, non parla.

Lo fa la famiglia Regeni che ieri ha espresso «gratitudine per il lavoro prezioso ed incessante della procura» e per l’impegno di Fico «che fin dal primo momento ha dimostrato salda e concreta vicinanza alla nostra battaglia».

Testa di ariete devono essere la presidenza della Camera e la Procura di Roma. Mercoledì Piazzale Clodio ha annunciato l’imminente iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari dei servizi considerati responsabili materiali della morte di Giulio. Ieri si è parlato di sette persone accusate di sequestro di persona. Le prove in mano ai pm italiani sono rintracciabili nei tabulati telefonici che dimostrano che Regeni era seguito e controllato fino al giorno della sua sparizione.

Tra loro il maggiore Magdi Abdlaal Sharif e il capitano Osan Hemly, che avrebbero gestito l’operazione coinvolgendo il capo del sindacato degli ambulanti, Mohammed Abdallah. Proprio lui, che riprese con una telecamera nascosta Giulio il 7 gennaio 2016, è la prova di un lungo periodo di pedinamento, non solo «tre giorni» come Il Cairo voleva far passare. Un anno fa Piazzale Clodio aveva dato a dieci sospetti nomi e cariche: due generali, due colonnelli, un maggiore, tre capitani, due agenti. Non proprio gli ultimi ingranaggi del sistema. Responsabili dell’omicidio e dei depistaggi, a partire dalla sparatoria a senso unico in cui furono uccisi, nel marzo 2016, cinque egiziani innocenti e dall’introduzione dei documenti di Giulio nella casa di uno di loro. La decisione di procedere è stata presa dopo i mancati riscontri nel vertice al Cairo questa settimana: gli inquirenti egiziani hanno consegnato sette paginette pressoché vuote. Dal febbraio 2016 l’Egitto non collabora, consapevole che sul banco degli imputati ci finirebbe l’intero regime.

* Fonte: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO[1]

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