by Giansandro Merli * | 7 Novembre 2018 9:50
Diciassette morti e quattordici dispersi: è il bilancio tragico tra le onde che uniscono le coste andaluse a quelle marocchine. Tre le imbarcazioni coinvolte, 98 i migranti sopravvissuti.
Un gommone è andato a sbattere lunedì prima dell’alba contro gli scogli davanti a Los Caños de Meca, provincia di Cádiz, poco oltre lo stretto di Gibilterra. Mancavano soltanto 200 metri all’arrivo. Delle quaranta persone che si trovavano a bordo quattro sono morte, ventidue si sono salvate e le altre sono ancora disperse.
Le altre due imbarcazioni sono state soccorse in mattinata, sempre lunedì, al largo delle coste di Melilla: la prima a 12 miglia dalla piccola isola di Alborán nel Mediterraneo; l’altra 18 miglia a nordest di Cabo Tres Forcas, territorio marocchino.
Le operazioni di salvataggio sono state condotte dalla Guardamar Polimnia, una nave di intervento rapido dell’organizzazione di soccorso e sicurezza marina spagnola Sasemar.
DURANTE L’INTERVENTO la Guardamar ha individuato nove corpi in mare, mentre è riuscita a trasportare sulle coste di Melilla ottanta persone. Quattro di queste sono decedute dopo lo sbarco, nonostante l’immediato ricovero in ospedale.
La nuova strage giunge a trent’anni dalle prime vittime della «frontera sur». Era il primo novembre 1988, infatti, quando un’imbarcazione affondò nei pressi di Tarifa, la località turistica spagnola che affaccia sullo stretto di Gibilterra. Delle ventitré persone a bordo ne morirono diciotto.
«Da quel primo novembre non si è fatto nulla per impedire queste morti», denunciava il 31 ottobre scorso l’Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía (Apdha). L’organizzazione stima che finora nel 2018 tra Spagna e Marocco hanno perso la vita 239 persone. Altre 279 risultano disperse.
«518 ESSERI UMANI deceduti provando a superare il “muro” costruito dal nostro paese e dall’Unione europea lungo la frontiera sud, per respingere chi fugge da guerra o miseria – attacca ancora l’Apdha – Queste persone non sono morte per il maltempo né per l’imperizia di conducenti improvvisati. Questi morti sono il risultato delle politiche crudeli e criminali che si continuano ad approvare da trent’anni». Secondo le stime, sarebbero almeno 8mila le vittime della rotta mediterranea occidentale tra il 1988 e il 2018.
IERI L’UNHCR ha pubblicato gli ultimi dati su sbarchi e morti in mare. L’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati calcola che nel corso di quest’anno circa centomila persone hanno raggiunto le coste europee, segnando un ritorno ai livelli precedenti al 2014. «Allo stesso tempo, gli oltre 2mila morti per annegamento indicano che il tasso dei decessi si è bruscamente innalzato».
Se nel 2018 la Spagna ha superato l’Italia per numero di sbarchi (49mila contro 22mila) è però sulla rotta tra Libia e Italia che si registra il maggior numero di vittime: 1.252 tra morti accertati e dispersi. A settembre ha perso la vita nel Mediterraneo Centrale una persona ogni otto tra quelle che hanno tentato la traversata.
Non a caso, pur senza citare esplicitamente il governo italiano, l’Unhcr punta il dito contro «le restrizioni legali e logistiche imposte ad alcune Ong desiderose di condurre operazioni di ricerca e soccorso». Il rapporto suona come l’ennesimo avvertimento alle politiche di contrasto dei flussi migratori dei governi europei in un tratto di mare che è diventato, per rifugiati e migranti, «la rotta marittima a maggiore rischio di decessi del mondo».
* Fonte: Giansandro Merli, IL MANIFESTO[1]
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