by Leonardo Clausi * | 17 Novembre 2018 9:58
LONDRA. La porta del gabinetto è sempre aperta. Anzi, a Downing Street si pensa di installare i tornelli per permettere ai dimissionari e ai nuovi incaricati di avvicendarsi in modo più fluido. Fuori Raab e McVey, rispettivamente Brexit e Lavoro e pensioni, dentro l’ignoto Steve Barclay e Amber Rudd (a volte ritornano, aveva dato sacrosante dimissioni per la porcata della «Windrush generation»). Tanto ormai le dimissioni dal governo May sono poco più esplosive delle miccette prenatalizie d’antan. Perché la parola d’ordine in questo caos agitato è business as unusual. Avanti col rimpasto dunque.
DOPO LA CONFERENZA STAMPA «Ecce Premier» di giovedì sera, in cui si è presentata al commentariato e all’opinione pubblica del paese sfinita e abbandonata da otto fra ministri e sottosegretari ma rivendicando la propria scelta di incatenarsi ai termosifoni di Downing Street pur di pilotare questo accordo-Titanic (costruita nei cantieri navali di Belfast!) in mezzo agli iceberg, Theresa May, suprema funambola in bilico fra Londra e Bruxelles, sa perfettamente che il luogo più sicuro di un ciclone è l’occhio. Per questo da lì non si sposta, dovranno andare a rimuoverla di peso. E ci provassero.
Sì perché, l’espressione inglese «be careful what you wish for» sibila da ormai qualche giorno nelle orecchie di molti brexittieri come il maledetto ronzio del tinnito. Stai attento a cosa desideri, potresti ritrovarti con qualcosa di ben diverso dalle aspettative. E ora che si cheta il bailamme delle defezioni, anche i più critici di questa bozza di accordo si rendono conto della situazione.
SE DA UNA PARTE le doglianze sulle 580 pagine dell’accordo della discordia sono molte e intollerabili – una Brexit troppo «morbida», soprattutto per via del backstop in Irlanda del Nord, che assoggetta tutta la Gran Bretagna a una permanenza a tempo indeterminata nell’unione doganale fin quando non si definiscano i nuovi termini dei rapporti commerciali fra l’Ue il paese senza permettere a quest’ultimo di decidere di uscire unilateralmente o di avere voce in capitolo -, dall’altra resta inossidabile il fatto che non ci sono alternative. Barnier e i 27 quell’accordo non lo cambieranno mai.
O meglio, le alternative che ci sono potrebbero essere addirittura peggiori della bozza-appeasement (May è stata paragonata perfino a Neville Chamberlain, figura qui disprezzata quasi più di Robespierre o Lenin): un secondo referendum, umiliante e divisivo, oppure l’inimmaginabile assoluto, i cosacchi di Corbyn che abbeverano i cavalli nelle cucine di Downing Street. In entrambi i casi sarebbe bye bye Brexit, la più grande umiliazione dai tempi di Suez.
PER QUESTO L’APPELLO alle 48 lettere necessarie all’innesco di un’elezione interna del leader lanciato dal frondista Jacob Rees-Mogg non sembra aver scatenato una gran grafomania. Di certo ancora non sono 48. E quand’anche lo diventassero, May potrebbe comunque resistere all’assalto. Il segnale più chiaro in questo senso l’hanno dato Michael Gove e Liam Fox, entrambi membri del governo e fondamentalisti euroscettici che hanno sostenuto May ieri. Il primo ha anche prevedibilmente rifiutato l’abbraccio mortale del dicastero Brexit offertogli dalla premier, che finora ha mietuto David Davis e Dominic Raab, quest’ultimo durato 5 mesi (è la seconda carica meno ambita a Westminster, la prima è naturalmente quella di May stessa). Resta l’ordalia del Parlamento a dicembre, dove quest’accordo e il suo latore potrebbero sopravvivere solo con l’aiuto dei centristi Labour disobbedienti alla linea ufficiale. Oltre a quello dei “mercati”, ovviamente.
* Fonte: Leonardo Clausi, IL MANIFESTO[1]
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