by Lea Melandri * | 24 Novembre 2018 10:13
“Noi siamo il cambiamento. Vogliamo trasformare la società, il mondo intero”.
È la sfida ambiziosa di Non Una Di Meno per la manifestazione nazionale di oggi a Roma. Può suonare avveniristica, ma dice molto della crisi di civiltà che va oltre i confini nazionali e vede le donne protagoniste di uno stato di agitazione permanente, globale, contro la violenza maschile, di genere e razzista, e contro i governi che la legittimano.
Senza perdere la specificità che ne ha segnato l’inizio -il rapporto di potere tra uomo e donna, la violenza simbolica, l’espropriazione attraverso i corpi- , il femminismo è sulla scena mondiale con una inedita, imprevista apertura sui molteplici aspetti che ha assunto il patriarcato nel corso della storia.
Una sfida che riguarda il sessismo, ma anche classismo, razzismo, colonialismo, fondamentalismo politico e religioso, omofobia. E quel che più interessa, ha aperto un campo teorico e pratico che li vede intersecati, sovrapposti e, al medesimo tempo, individuabili, nell’esperienza dei singoli, dei gruppi, di tutte le aggregazioni umane.
Nelle elezioni americane di medio termine ha colpito, non a caso, il modo diverso di fare politica: il “partire da sé”, dalle vite, dal vissuto personale, ma da un “sé” in cui erano rintracciabili, nella loro reciproca implicazione, genere, trans genere, classe, razza, religione, oltre alla giovane età.
Giovane è anche la generazione che in Italia, due anni fa, nella ricorrenza della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 26 novembre, ha riportato nelle vie di Roma, una imponente manifestazione di soggettività diverse, femministe, trans femministe e queer, con uno slogan ripreso dal collettivo argentino in lotta per la legalizzazione dell’aborto. Da allora, Non Una Di Meno si è fatta “laboratorio di proposta politica” permanente, sostenuta dai collegamenti internazionali, dalle assemblee nate in molte città, tavoli tematici e incontri nazionali, ma forte soprattutto per l’elaborazione collettiva di un «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, strumento –come scrissero allora- di trasformazione e lotta complessivo, sui temi dell’autodeterminazione, della salute, della libertà di scelta, del lavoro, del welfare, dell’educazione, dell’immaginario/narrazione».
Obiettivi concreti e straordinaria capacità organizzativa, che deve molto alla rete e ai social network, ma che non avrebbe raggiunto la rilevanza che ha oggi se non fosse anche la ripresa di una passione femminista capace di durata e accomunamento, come fu quella degli anni Settanta.
Anche allora, a fare la sua “imprevista” comparsa sulla scena pubblica fu una generazione di donne colte di sorpresa -nei licei, nelle università, per le strade di una città- dall’ondata rivoluzionaria del ’68, e subito resasi consapevoli che in quella rivoluzione, per quanto radicale, non era prevista la liberazione dal dominio millenario che era stato loro imposto.
Della violenza maschile si scopriva allora l’aspetto più insidioso, perché invisibile: una rappresentazione del mondo che le donne avevano forzatamente fatta propria e che passava innanzi tutto per i loro corpi, dalla sessualità alla maternità, ai ruoli e legami famigliari di mogli e madri, e che aveva bisogno, per essere compresa e svelata, di una pratica capace di spingere la politica dentro una materia che sta ai confini tra natura e storia, imparentata con l’inconscio.
I nessi tra questa preistoria del rapporto tra i sessi, rimasta fino allora nascosta e impresentabile anche nelle battaglie emancipazioniste tra ‘800 e ‘900, e la realtà sociale, si intravedevano all’orizzonte e come traguardo di una lenta modificazione di sé, che avrebbe dovuto ricadere con tutto il suo peso nel mondo. Reale e impossibile in quel momento, e per alcuni decenni a seguire, la rivoluzione femminista sembra essersi aperta di nuovo un varco quando è uscita dagli interni domestici la violenza manifesta – maltrattamenti, stupri, ricatti, femminicidi- che li ha abitati a lungo, coperta dal potere patriarcale e dalla idealizzazione della famiglia.
La prima grande manifestazione in cui collettivi femministi e lesbici hanno scritto nei loro striscioni «il boia ha le chiavi di casa», «la violenza è maschile e non ha patria», è del 24 novembre 2007. Se un amore alienato dal potere con cui è andato a confondersi ha potuto finalmente mettere a nudo l’odio di una guerra sotterranea tra i sessi, altra strada era da fare affinché quella violenza fosse riconosciuta, fuori dal privato, come struttura portante di tutte le forme di dominio, sfruttamento e oppressione che la storia ha conosciuto.
Che cosa ha fatto sì che in questi ultimi anni si potessero riconoscere e creare legami tra lotte e soggetti diversi? Che cosa ha spinto il femminismo della nuova giovane generazione a radicalizzare e ampliare i suoi temi, la sua azione politica? Sono caduti molti confini , tra privato e pubblico, ma anche tra mondi e culture.
La globalizzazione, la crisi economica, le guerre, l’impoverimento di classi sociali e popoli e le conseguenti ondate migratorie, sembrano aver risvegliato le “potenze interne” che insidiano da sempre ogni conquista di libertà, uguaglianza e solidarietà umana: dal sessismo alle derive razziste e nazionaliste.
E’ come se il dominio maschile si fosse fatto oggi riconoscibile in tutte le sue molteplici sfaccettature nei governi del mondo e che fosse toccato non a caso al femminismo, essendo le donne presenti trasversalmente sotto ogni cielo e ogni aggregazione sociale, diventare il riferimento per una rivoluzione o liberazione dalla schiavitù , che oggi riguarda tutti o nessuno.
* Fonte: Lea Melandri, IL MANIFESTO[1]
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