Brasile. Clima, lo strappo negazionista di Jair Bolsonaro
È arrivato a pochi giorni dall’inizio della Cop 24, la Conferenza Onu sul clima di Katowice, l’annuncio che il Brasile rinuncerà a ospitare la Cop 25 in programma dall’11 al 22 novembre 2019. Per via dei «tagli al bilancio», ha comunicato ufficialmente il ministero degli Esteri, e anche a causa del «processo di transizione della nuova amministrazione che si insedierà l’1 gennaio».
Ma che non sia questo il vero motivo lo ha lasciato intendere lo stesso Bolsonaro, affermando di aver personalmente raccomandato al futuro ministro degli Esteri, Ernesto Araújo, di cancellare la candidatura del Brasile per non rischiare di dover «annunciare una possibile rottura» dell’Accordo di Parigi sul suolo patrio.
Evocando il rischio di una perdita di sovranità legato al progetto noto come “tripla A” – un corridoio ecologico transnazionale che va dalle Ande all’Amazzonia fino all’Atlantico ma di cui non c’è traccia in alcun documento dell’Accordo di Parigi – il futuro presidente ha infatti voluto «chiarire per bene» che in tal caso il suo governo sarebbe pronto allo strappo. E ha aggiunto: «La politica ambientale non può ostacolare lo sviluppo del Brasile. Oggi l’economia è in salute quasi solo nell’ambito dell’agribusiness. E proprio quest’ultimo si trova soffocato da questioni ambientali che non contribuiscono in nulla alla crescita né alla preservazione della natura».
Per quanto grave, il ritiro della candidatura del Brasile, formalizzata appena due mesi fa, non è apparso certo come un fulmine a ciel sereno, considerando le convinzioni del futuro presidente in materia ambientale e climatica. Non per niente ha scelto come ministro degli Esteri Ernesto Araújo, diplomatico di medio livello senza alcuna esperienza internazionale, grande ammiratore di Trump – considerato una sorta di messia che salverà la civiltà occidentale dal «marxismo culturale globalista» – e, esattamente come il suo idolo, negazionista climatico, convinto che il riscaldamento globale sia un «dogma» utile a giustificare «il potere delle istituzioni internazionali sugli Stati», a soffocare «lo sviluppo economico nei paesi capitalisti democratici e a «promuovere la crescita della Cina».
Su questo terreno, insomma, non c’è davvero pericolo che le promesse-minacce della campagna elettorale non vengano mantenute. A trasformare in realtà quella «bolsocalipse» ambientale evocata con timore dalle organizzazioni ecologiste e di sinistra ci penserà del resto anche la futura ministra dell’Agricoltura Tereza Cristina da Costa, già a capo della potente bancada ruralista al Congresso, dove si era distinta per il suo lavoro a favore della legalizzazione massiccia di aree pubbliche invase dai latifondisti, con incremento della deforestazione e dei conflitti per la terra.
Sarà lei, soprannominata «musa dei pesticidi», a realizzare gli obiettivi di Bolsonaro: indiscriminato sfruttamento dell’Amazzonia e pieno sostegno all’agribusiness, allentando controlli e multe e trasformando aree protette e terre indigene in pascoli per il bestiame, latifondi di soia e miniere. In base agli ultimi dati la deforestazione è cresciuta di quasi il 14% tra agosto del 2017 e luglio del 2018: un’area equivalente a 5,2 volte la megalopoli di São Paulo.
* Fonte: Claudia Fanti, IL MANIFESTO
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