Addio Novecento, addio Bertolucci. Il desiderio è rivoluzione

Addio Novecento, addio Bertolucci. Il desiderio è rivoluzione

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È sempre difficile affrontare una notizia che ti coglie impreparato. È vero, era malato da tempo Bernardo Bertolucci però nonostante questo continuava a fare progetti, a lasciare porte aperte, «vita al lavoro», con un nuovo film in scrittura che contava di girare, forse «piccolo» come il precedente e magnifico Io e te (2012) e altrettanto spiazzante, con una energia imprevista e imprevedibile che mentre lo guardavo pensavo: sembra il film di un ragazzo. Ma lui lo era, un ragazzo…Invece all’improvviso non c’è più, ed ecco che il tempo corre, scrivere, dire qualcosa, ripensare tutti i film, nel rewind che è anche quello della vita in cui quei film sono entrati con prepotenza delicata diventando una «guida» irriverente per lo sguardo.

COSA ci ha insegnato il cinema di Bertolucci? Cosa ci insegna e ci insegnerà? Il desiderio e la rivoluzione,la sensualità della macchina da presa e quel «Non si può vivere senza Rossellini» (in Prima della rivoluzione) quasi un «Non si può vivere senza Bertolucci» anche se nel nostro cinema lui è rimasto una singolarità. E non si tratta soltanto di inquadrature o mise en scene o storie. È qualcos’ altro, molto di più, molto diverso, lo spazio dell’immaginario, il piacere di filmare, la scoperta del mondo insieme alla sua invenzione. E poco importa se avviene in una cantina (Io e te) o nella Città proibita della Cina imperiale all’inizio del secolo scorso (L’ultimo imperatore), le sue «scene madri» – citando il libro di Enzo Ungari, che è stato tra gli autori proprio di L’Ultimo imperatore – restituiscono la trama complessa della realtà e del suo tempo in un sentimento universale, libero e critico, che scuote le certezze, interroga la propria materia senza mai mettersi al riparo di una «ideologia». E quella capacità di trasportare nel mondo le radici, di aprire il cinema a una dimensione mondiale che, al di là della circostanza produttiva, continua però a portare in sé la propria impronta.

TUTTI i film di Bertolucci vivono su un confine, un gioco di specchi tra interno/esterno, la messa in campo di un punto di vista consapevole di sé che dichiara la presenza dell’autore con la sua esperienza trasformata in narrazione, la sua cinefilia più atto d’amore che citazione, gli amici, i miti, l’infanzia a Parma. Le scene di ballo anche queste passaggio «obbligato» nel deserto o in un oriente dei film amati o ancora nella villa in Toscana dove vive il suo romanzo di formazione una giovane americana (Io ballo da sola, 1996) – ma in fondo lo sono un po’ tutti i suoi film romanzi di formazione. Lui è lì, con le sue storie che amava raccontare, narratore raffinato che non ci si stancava mai di ascoltare, aggiungendo ogni volta qualche variante.

AVEVANO messo al rogo – letteralmente – Ultimo tango a Parigi nell’Italia clericale e ipocrita del 1972, privando Bertolucci dei diritti civili per cinque anni; era indigesto quel film per come capovolgeva la rappresentazione della sessualità, i rapporti uomo e donna dentro alla visione Nouvelle Vague di unire il cinema europeo e americano… E a distanza di decenni la polemica continuava con le accuse di avere devastato – psicologicamente – Maria Schneider nella scena del «burro». Eppure lei, il suo personaggio di ragazza che vive due vite, una dentro e l’altra fuori quell’appartamento gli è molto vicina, forse persino più di quello di Brando, l’icona di un cinema americano contrapposta ai fantasmi della Nouvelle vague, il tremore per quel desiderio (ancora e sempre) di trasgressione che stride col mondo oltre le pareti di Passy ove avvengono i loro incontri.
Novecento (1976) venne attaccato dal Pci – almeno dalla generazione più vecchia – che lo accusava di essere non realista, mai un figlio di contadini poteva essere amico col figlio dei padroni come accade tra Olmo (Depardieu) e Alfredo (De Niro) nati entrambi il 27 gennaio del 1901, il giorno della morte di Verdi. Ma la fonte era la sua infanzia nella campagna emiliana – Bertolucci era nato a Parma nel 1941 – quando da ragazzino giocava coi figli dei contadini e, come amava ricordare, aveva scoperto la parola «comunista». Lui, Bertolucci, non ne occupa il posto, al contrario mantiene la coscienza del suo essere borghese e questo gli permette di passare dalla realtà come è all’utopia della rivoluzione. E del cinema. Questa è la sostanza politica delle sue immagini incomprensibile alla critica italiana del tempo che metteva avanti il «contenuto». Ma Bertolucci guardava altrove, viaggiava nel tempo e nello spazio, si immergeva nell’inconscio per cogliere i conflitti, l’io e il noi.

IL ’68 era Pierre Clementi (protagonista di Partner, scritto insieme a Gianni Amico) che portava il pavet parigino tra i sanpietrini romani – «Aspettavano le sue storie» diceva Bertolucci. E saranno poi i ragazzi di The Dreamers, chiusi anche loro in un appartamento per uscire infine in strada e scegliere nel confronto con la realtà diverse posizioni separati per sempre – nella sinergia tra Bertolucci e il biondo Michael Pitt – sognatori che uniscono ancora una volta l’immaginario e il vissuto in un unico respiro.

CINEMA, desiderio, rivoluzione. La memoria di una notte sussurrata sulla spiaggia di Sabaudia (dove era la sua casa) con la Madre – nello struggente melò che è La luna – e il seno che succhia bimbo L’ultimo imperatore. Ma l’inconscio è sempre quello dell’umano, di un Paese, della storia. Del Novecento e del contemporaneo. Non a caso Bertolucci nella famiglia alle prese col rapimento del figlio forse mai avvenuto – La tragedia dell’uomo ridicolo – è l’unico regista italiano che nell’81 illumina con precisione lo spaesamento della politica, della sinistra di fronte alla lotta armata, il grande tabù del nostro immaginario.

ALL’INIZIO c’era stato Pasolini (con cui scrive il suo esordio, La commare secca, 1962), una foto li ritrare insieme entrambi con la giacca e la cravatta (la moda per i giovani non c’era ancora) Bertolucci ricciuto e bello. Tra le sue storie c’era quella del loro primo incontro, quando Pasolini era venuto a cercare il padre, il poeta Attilio, a casa, mentre riposava. E Bernardo lo aveva tenuto sulla porta un po’ brusco. Il padre lo aveva molto rimproverato, e da lì era iniziato un legame profondo, una trasmissione anche se con visioni del mondo diverse. «Pier Paolo raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora» diceva Bertolucci ancora a proposito di Novecento.

E POI? Ci sono nove premi Oscar (L’ultimo imperatore), una dimensione sempre più internazionale data non solo dal lavoro con attori di tutto il mondo, la passione e la curiosità, l’eleganza e le storie, ma sopratttutto l’amore per il cinema. Che non è mai fine a sé stesso, mai presunzione del filmare, pure se l’occhio di Bertolucci riesce a comporre la spettacolarità in ogni dettaglio, ma sentimento della modernità. E la scommessa nelle sue variazioni di essere ancora capace di sorprendersi.

* Fonte: Cristina Piccino, IL MANIFESTO



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