Workfare all’italiana. I populisti in guerra contro il divano
C’erano una volta i bamboccioni e i choosy. Oggi quelli “che stanno sul divano”. Storia di un vecchio nemico del capitalismo, riscoperto dai populisti al governo: il lazzarone, lo scansafatiche, chi si oppone al regime del lavoro salariato o non lo cerca più perché è sempre più miserabile. L’obiettivo del sussidio di povertà chiamato “reddito di cittadinanza” è mettere in attività chi non risulta dalle statistiche e dimostrare che c’è la “crescita”. Anche se il lavoro resterà precario, sottopagato e gratuito
Il nemico della «manovra del popolo» è chi «sta sul divano». A lui «non andrà un euro» del sussidio di povertà chiamato impropriamente «reddito di cittadinanza», ripetono leghisti e Cinque Stelle. Dopo i «bamboccioni», i «choosy», gli schizzinosi che non scelgono di fare un lavoro qualunque, pur di essere attivi e occupati, evocati negli ultimi dieci anni da Padoa Schioppa, Fornero e Poletti (e molti altri) oggi è il turno di un nuovo personaggio. Ad aprile 2019, quando si dice che il sussidio di povertà sarà attivo, dovrà usare il suo smartphone diversamente. Non sul divano, ma sulla «app» per cercare una domanda di lavoro. O su quella dove dovrà comporre la sua spesa di Stato presso circuiti autarchici stabiliti dal governo. Sempre che questo «povero» abbia una carta di credito per ricaricare il cellulare e un conto corrente dove ricevere la cifra risultato della differenza tra i 780 euro promessi e il suo reddito Isee.
CHOOSY, bamboccioni, amanti del divano: insieme formano il profilo del «lazzarone» o dello «scansafatiche», nomi che rimandano ai nemici del capitalismo, rispolverati al tempo del populismo. Sono coloro che non rispondono alla disciplina del lavoro e all’imperativo della produttività. Possono anche essere considerati come l’ultima linea di resistenza all’imperativo dell’iperattivismo dell’imprenditore di se stesso, il cacciatore di lavori anche quando il lavoro è miserabile. A costo dello stigma sociale, della malattia, della coscrizione, questo soggetto si sottrae. E si chiude nel mutismo, si auto-esilia. Luigi Zoja, Sergio Bologna e molti altri hanno descritto questa condizione del «Neet», dell’escluso volontario, in tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti, all’Italia.
QUESTE FIGURE sono anche la proiezione dell’intolleranza delle classi dominanti. Quando sono associate al «povero assoluto» diventano intollerabili. E lo sono ancora di più se associati alle figure dell’esclusione: rom e migranti. Per lo stesso riflesso xenofobo i residenti stranieri che lavorano, ma sono poveri, saranno esclusi dal sussidio di povertà.
QUESTI «POVERI» non devono restare inattivi – «sul divano». Devono dare un contributo al mercato, alzando il tasso di occupazione e diminuendo quello di disoccupazione. Per questo il governo punta ad alzare l’uno e a diminuire l’altro. Questi esclusi dal mercato serviranno per dimostrare che la crescita esiste (dallo 0,9 all’1,5% del Pil, è la stima per il 2019). Lasciando il divano, percepiranno un sussidio decrescente e a tempo vincolato al lavoro gratuito (8 ore gratis a settimana per lo Stato) e formazione. Con quali effetti sulle loro vite non si sa.
CAMBIANO LE MAGGIORANZE, resta lo stesso sospetto contro chi non intende – o forse solo pensa – dare il suo contributo all’auto-sfruttamento della forza lavoro. Questo è il principale non detto nei primi giorni del confronto sul “reddito di cittadinanza”. È in corso un gioco retorico: gli oppositori dei Cinque Stelle (Pd, e tutto il mainstream neoliberista) rimuovono il fatto che il «reddito di inclusione» («ReI») è l’anticamera di questo «di cittadinanza». Ne segue la logica, anche se la nuova misura la estremizza radicalmente in un workfare neoliberale che vira nel penale. L’attuale governo vuole dimostrare la discontinuità con il «ReI», mentre ne incamera le risorse (2,5 miliardi) per arrivare al totale di «10», numero tondo e facile per la comunicazione.
È UN GIOCO DI RUOLI che danneggia milioni di persone che avrebbero bisogno di una prospettiva di liberazione, di credere nella propria vita, amare il mondo, sentirsi al sicuro, non temere gli altri, ma cercarne la complicità e la cooperazione. Questo è l’ordito etico e politico che tende a sviluppare la proposta del reddito di base incondizionato, il tratto originario, ma rimosso, in questo momento. E’ una proposta che aiuta a difendersi dai ricatti del mercato del lavoro e di una società violentemente classista, forte di una dignitosa autonomia riconquistata. Né il «ReI», né il sussidio di povertà chiamato «di cittadinanza» lo sono, né lo vogliono essere.
OGGI CI SI LIMITA a dire che, dopo l’istituzione di una gigantesca società della sorveglianza, «ci sarà lavoro». Non si dice quale: probabilmente precario, non diversamente da quello che già esiste. Sempre che ci sia un’offerta di lavori di tale dimensioni. E che i centri per l’impiego, gli stessi che il governo sostiene di riformare miracolosamente in tre mesi, inizino a funzionare tra «gennaio e marzo» come ha detto Di Maio. Vaticinii, speranze che diventano realtà. Vedremo come. Il progetto, in fondo, è imporre al più grande numero di persone di partecipare alla società della piena occupazione precaria.
IERI DI MAIO ha fatto una concessione sulle «spese immorali» dei poveri. L’«immoralità» sarebbe quella di chi «gioca d’azzardo, alle videolottery, al poker online». Ora sembra avere escluso dal divieto beni giudicati inizialmente «superflui» per i «poveri»: dalle tv al plasma ai rossetti, dai preservativi agli smartphone. «Chi sta sul divano» è però avvertito: in caso di «frode» potrebbe essere imputato del reato di «falso in reddito di cittadinanza» inventato da Stefano Buffagni (M5S), quello che per Di Maio potrebbe costare fino a «sei anni di galera». Nessuna parola sul fatto che la «manovra del popolo» impone il divieto del contante per loro e un condono per gli evasori. La chiamano «pace fiscale». Per i «poveri», anche quelli sul divano, nessuna pace.
* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO
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