L’ultima versione saudita sull’uccisione di Khashoggi: «È stata una colluttazione»
Solo uno come Donald Trump poteva dare credito alla versione saudita della morte di Jamal Khashoggi. Ieri, non appena Riyadh ha ammesso la morte del giornalista dissidente, spiegandola come l’esito di una «colluttazione», di una «scazzottata», avvenuta il 2 ottobre nel consolato saudita a Istanbul, il presidente americano si è precipitato a definirla «credibile». I sauditi avrebbero potuto dare qualsiasi versione e il tycoon l’avrebbe accettata, perché vuole preservare ad ogni costo le decine di miliardi di dollari con i quali Riyadh alimenta l’alleanza con la superpotenza americana. E per farlo non esita a fornire cifre iperboliche dei posti di lavoro che gli americani perderebbero se la sua Amministrazione decidesse di applicare sanzioni contro l’Arabia saudita. Ma anche Trump sa che i Saud hanno detto una mezza verità, anzi un quarto di verità, e si cautela prendendo le distanze. Ora afferma di «conoscere appena» Mohammed bin Salman, lo spietato 31enne erede al trono ritenuto il mandante di tutta l’operazione in terra turca contro Khashoggi. Fino a qualche giorno fa insieme complottavano contro l’Iran.
Come è morto Jamal Khashoggi, dov’è il suo corpo, probabilmente fatto a pezzi dai suoi assassini giunti apposta da Riyadh? Interrogativi ai quali forse risponderà il presidente turco Erdogan – un altro “campione” dei diritti umani – che promette di riferire l’esito completo delle indagini svolte dalla sua polizia. Certo Khashoggi non è stato colpito da un infarto e neppure si è suicidato durante la «colluttazione». Un alto funzionario saudita ha dato al New York Times una versione più attendibile. «Ha tentato di fuggire dal consolato, lo hanno fermato, preso a pugni. Lui ha iniziato a urlare, allora uno dei presenti lo ha preso per il collo, strangolandolo fino alla morte», ha riferito il funzionario spiegando che «C’è un ordine generale del Regno di far rientrare i dissidenti che vivono all’estero. Così quando Khashoggi ha contattato il consolato a Istanbul, il generale Al Assiri (a capo dell’intelligence,ndr) ha inviato il team di 15 uomini» per rapirlo. La squadra ha incluso Maher Abdulaziz Mutrib, membro del servizio di sicurezza del principe ereditario, che conosceva Khashoggi perché una decina di anni fa aveva lavorato con lui. Tuttavia, secondo il racconto del funzionario, l’ordine di riportare Khashoggi con la forza in patria sarebbe stato interpretato «erroneamente» lungo la catena di comando e qualcuno ha capito che andava fatto fuori. Una versione lacunosa che solo i turchi potranno integrare o smentire quando, come sostiene Erdogan, saranno resi noti i risultati del lavoro degli inquirenti.
L’ammissione saudita dell’uccisione del giornalista è stata accompagnata dalla notizia di 18 arresti e dal licenziamento di Al Assiri e del consigliere Saud Al Qahtani (lo “Steve Bannon” saudita), entrambi molto vicini a Mohammed bin Salman. Il coinvolgimento del principe è palese e re Salman sta facendo di tutto per proteggere il figlio, sacrificando alcuni pezzi grossi del suo entourage. Non è detto che il tentativo vada in porto. La sete di potere MbS (come certa stampa ama siglare Mohammed bin Salman) unita al gusto di umiliare e punire severamente gli avversari – siamo ad un anno dalla sua “campagna anticorruzione” che portò alla detenzione di centinaia di ex ministri, uomini d’affari miliardari, comandanti militari, dignitari, funzionari pubblici suoi oppositori – non gli hanno lasciato molti amici nella famiglia reale e ai vertici degli organi esecutivi. Quindi si deve dare credito a quanto riferisce il sempre ben informato David Ignatius del Washington Post (giornale per il quale scriveva Jamal Khashoggi), secondo il quale «coloro che si oppongono a Mohammed bin Salman si stanno silenziosamente raccogliendo attorno al principe Ahmed bin Abdul Aziz». E circolano in queste ore voci che vogliono i 35 principi del “Consiglio del Giuramento di Fedeltà” riuniti per trovare una via d’uscita ad una vicenda che scuote forte il regno. E non è insignificante che re Salman abbia deciso di gestire di persona le conseguenze dell’uccisione di Khashoggi mettendo in disparte il figlio che già nei mesi scorsi aveva dovuto contenere a causa della sua politica estera spregiudicata.
I centri per i diritti umani, internazionali e mediorientali, insistono affinché Riyadh riveli finalmente tutta la verità e sia respinto qualsiasi tentativo da parte di altri governi di nascondere l’accaduto sotto il tappeto per preservare i contratti miliardari che hanno con Riyadh. Sperano inoltre che si cominci a parlare degli altri “Jamal Khashoggi” nel Golfo detenuti, perseguitati e a rischio di svanire nel nulla. Resta, ad esempio, in una prigione saudita il blogger Raif Badawi condannato a 10 anni e mille frustate per avere, secondo i giudici, offeso la religione. Un attivista dei diritti umani Ghanem Dosari, critico della famiglia reale saudita, il mese scorso a Londra è stato aggredito e ferito da sconosciuti che inneggiavano a Bin Salman. Quattro mesi fa un tribunale di Abu Dhabi ha condannato l’attivista Ahmad Mansour a 10 anni di carcere perché aveva denunciato sui social le violazioni dei diritti umani negli Emirati arabi. Nel Bahrain che ospita la base della V Flotta americana, re Hamad ha fatto arrestare gran parte degli oppositori. L’attivista dei diritti umani Nabil Rajab è stato condannato a cinque anni di carcere per un tweet contro la monarchia.
* Fonte: Michele Giorgio, IL MANIFESTO
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