L’Afghanistan vota tra bombe e controlli biometrici
JALALABAD. «Per me è una giornata speciale. Ho vissuto tanti anni in Pakistan. Sono tornato in Afghanistan due anni fa e oggi posso votare: non l’avrei immaginato». Adam Sas è in fila in un seggio della scuola femminile Mina di Jalalabad, il capoluogo della provincia orientale di Nangarhar. «Non mi importa di aspettare, non mi importa dei Talebani, voglio scegliere chi mandare in parlamento», dice convinto. È uno degli 8,5 milioni di afghani registrati nelle liste elettorali.
QUANTI ABBIANO VOTATO IERI è difficile dirlo. Qui a Jalalabad la partecipazione sembra alta. Pashtun Rahmani, 25 anni, spiega al manifesto che ha scelto di votare, a dispetto di frodi e insicurezza, «perché i membri del parlamento attuale pensano solo ai loro affari. Siamo stanchi di gente simile. Vogliamo cambiare le cose». Non è ingenuo. Sa bene che non tutti i voti contano allo stesso modo. Che si possono comprare, a pacchetti. Che la corruzione ha sempre condizionato il risultato finale. Ma ha un pizzico di fiducia in più, questa volta: «Con i sistemi elettronici è più difficile commettere le frodi», dichiara prima di mostrare il dito macchiato d’inchiostro.
La Commissione elettorale indipendente, l’organo che ha il compito di gestire il voto, davvero poco indipendente, ha introdotto il sistema di riconoscimento biometrico su pressione dei partiti politici. Una forma di controllo reciproco, in un sistema in cui non «non c’è politico di rilievo che non abbia tentato di manipolare o abbia manipolato il voto», ci aveva detto qualche giorno fa a Kabul Thomas Ruttig, direttore dell’Afghanistan Analysts Network. «Il sistema biometrico dà garanzie a tutti, partiti, candidati, cittadini», ci spiega invece Farmanullah, il responsabile di una delle sezioni elettorali. Ma è un sistema nuovo, introdotto con molto ritardo. Ha creato problemi, ritardi, contestazioni. «È più di un’ora che aspettiamo che la macchinetta riprenda a funzionare o che qualcuno ci spieghi come farla ripartire», si lamentano in un seggio nella seconda scuola che visitiamo, la Bibi Zenab, a due passi dal comando della polizia provinciale.
È L’ORA DI PRANZO e per le strade di Jalalabad c’è poca gente. Vietate automobili, risciò, moto. Gli accessi principali sono controllati dai poliziotti. Le radio militari gracchiano. I soldati si mostrano scrupolosi. In ballo c’è anche la loro reputazione. La porta di uno dei seggi è chiusa. Dentro, un drappello di uomini si accalca intorno a una scrivania. A tratti i toni si accendono. Sono «agenti», gli uomini spediti dai candidati a monitorare il voto. Ce ne sono in tutti i seggi, in ogni angolo del paese. I candidati più potenti e ricchi, a Kabul, ne hanno dispiegati più di 2.000. Qui i numeri sono più bassi. Ma sono ovunque.
LA MACCHINA BIOMETRICA, che registra ogni elettore tramite foto e impronte digitali per impedire voti multipli, è bloccata. Nessuno sa come procedere. «Guarda gli ‘agenti’. A tratti sono più numerosi degli elettori!», nota ironicamente Mohammadullah Khatir, responsabile del seggio della porta accanto. Ha una lunga esperienza alle spalle: «È la mia quarta elezione. Le cose sono migliorate. Non ho ancora ricevuto telefonate dai politici. Gli agenti dei candidati ci tolgono un po’ di responsabilità». Che comunque rimangono enormi.
Non sa che il problema riguarda centinaia e centinaia di seggi elettorali in tutto il paese. Alcuni non hanno aperto prima delle 13.30. Cominciano ad arrivare nuove indicazioni: i seggi devono restare aperti più a lungo del previsto, oltre le 4 del pomeriggio. Troppi i ritardi, le difficoltà logistiche. Decine e decine gli attacchi dei Talebani, che non sono riusciti a fare il colpo clamoroso, pur rivendicando quasi 200 attacchi totali e impedendo di fatto l’apertura dei seggi in molte aree rurali, lontane dai riflettori. A fine giornata, il ministero degli Interni fa il bilancio: uccisi 17 civili (la maggior parte in un attentato nel tardo pomeriggio a Kabul) e almeno 10 poliziotti, un centinaio i feriti, 192 gli attacchi dei barbuti.
POCO PRIMA DELLE 16 ci rechiamo in un altro centro elettorale, nella scuola Taj Rubay. La sezione femminile è gremita di donne. Molte attendono all’esterno, nel giardino. Nella sezione maschile, su due piani, in molti seggi ci sono ancora file. Solo quello per i kuchi, i nomadi a cui sono riservati 10 dei 250 posti in parlamento, è vuoto. Shabir Amhad, 25 anni, intende votare, ma non può: «Mi sono iscritto nel registro tempo fa, ma il mio nome oggi non è nelle liste». Come lui, migliaia di altri nel Paese. Nelle altre sezioni regna la confusione: «Andremo avanti fin quando continueranno ad arrivare gli elettori», si dice in un seggio. «Alle 18 chiudiamo», assicurano nell’altro. In un terzo seggio alle 16.35 si chiudono i giochi: fuori gli elettori, dentro solo i membri della Commissione elettorale e gli agenti dei candidati.
INIZIA LO SPOGLIO. Gli agenti, penna e bloc-notes in mano, prendono appunti. Sperano di poter tornare a casa presto. Non immaginano che di lì a poco a Kabul il portavoce della Commissione elettorale annuncerà che il voto si ripeterà anche oggi, domenica. In quali seggi, fino a che ora, non è chiaro. Forse anche qui, nel centro di Jalalabad.
* Fonte: Giuliano Battiston, IL MANIFESTO
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