La prigione come deposito delle nostre paure

by Vincenzo Scalia * | 30 Ottobre 2018 10:50

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L’universo carcerario costituisce un elemento imprescindibile della società contemporanea. Sul piano dell’immaginario, le prigioni sono il vero e proprio depositario delle paure collettive, che pretendiamo di risolvere, ma in realtà rimuoviamo, ogni volta che si evocano misure restrittive più afflittive. La frase «rinchiuderli e buttare via la chiave», e il successo che riscuote, ne è forse l’esempio più calzante. Se spostiamo il punto focale sul piano razionale, le differenze non sono moltissime. Magistrati, forze dell’ordine, esponenti politici, e la pletora degli altri attori che gravitano nella sfera penale, non riescono a pensare e a pensarsi se non in termini punitivi, dove il contenimento e l’afflizione, declinando un approccio retribuzionista che tarda a morire, rimangono le uniche soluzioni proposte per rispondere ai conflitti sociali, chiedendo alla penalità risposte che ormai non è più in grado di dare.
COME DESCRIVERE e analizzare il carcere e gli apparati di controllo sociale al tempo della contraddizione tra crisi forse irreversibile del sistema penale e domanda crescente di sicurezza? Giada Ceri, nel suo libro La giusta quantità di dolore, pubblicato da Exòrma (pp.150, euro 14,90), cerca di fornire una risposta originale. Attraverso la stesura di un pastiche che include le caratteristiche del progetto di ricerca, del diario di bordo, del racconto senza essere compiutamente nessuno delle tre cose, Ceri disvela, attraverso un percorso che ricorda il gioco dell’oca, le contraddizioni della penalità odierna.

LA PRIMA DIMENSIONE riguarda il continuo richiamarsi tra carcere e società. Se la sfera penale mira all’incapacitazione collettiva delle classi pericolose, allora va espunta dal tessuto sociale. Per questo motivo vengono costruite carceri supermoderne nelle aree periferiche, come il caso di Sollicciano, a richiamare il nesso tra marginalità sociale e carcerizzazione. Dall’altro lato, i vecchi istituti di pena situati nei centri storici, come le Murate a Firenze tendono a essere riconvertiti in centri polivalenti, veri e propri non-luoghi privi di identità, che richiamano la carcerizzazione sotto altre forme. La circolarità tra pena e società, che Bauman e Foucault hanno individuato come uno dei cardini della modernità, trova nel caso fiorentino la sua incarnazione.

LA FRAMMENTAZIONE, cifra della società postmoderna, non può non riguardare il carcere, e qui entriamo nel secondo significativo spunto che il libro fornisce. Il sovraffollamento, i tagli alla spesa pubblica, l’incapacità ad affrontare la complessità contemporanea demandata alla penalità, trasformano la riabilitazione in lettera morta, deteriorando le condizioni di vita e rendendo le strutture penitenziarie fatiscenti. In questo contesto, l’implementazione del rispetto dei diritti fondamentali, è appannaggio dei volontari, di direttori illuminati, degli organismi di vigilanza.

OPPURE, come nel caso dei paesi scandinavi, di una cultura della tolleranza che fa delle carceri responsabilizzanti, con libertà di circolazione, affettività condizioni di vita decenti. Il frutto di quello che la sociologia penitenziaria definisce l’eccezionalismo penale, in quanto rappresenta un approccio del tutto singolare rispetto alle tematiche del carcere e della detenzione.
Tuttavia, e questo è l’ultimo spunto di riflessione che il libro ci fornisce, a lungo andare l’universo penitenziario finisce per essere una rete che cattura tutti i suoi attori, anche quelli animati da propositi di riabilitazione e di implementazione dei diritti.

I DEPOSITI DI POTERE, di cui ci parlava Stanley Cohen, fanno sì che anche le associazioni di volontariato finiscano, loro malgrado, per vedere la crisi come un’occasione per nuovi campi d’azione, ovvero di progetti assistenziali, che vede coinvolti ex detenuti, reduci degli anni settanta, lavoratori espulsi dal ciclo produttivo nel corso della recente recessione. In fondo, l’esistenza del carcere, legittima rendite di posizioni e occasioni di lavoro, e trasforma le parole d’ordine riabilitanti in un orpello ideologico. All’interno di questo irretimento collettivo, i diritti dei detenuti passano in secondo piano. Meglio pensare ad abolirlo il carcere, forse…

SCHEDA

Il Salone dell’Editoria Sociale terrà la sua decima edizione dal 2 al 4 novembre presso il quartiere Testaccio di Roma. Domenica 4, in sala B, alle ore 18, Giada Ceri, autrice di «La giusta quantità di dolore» per Exòrma dialogherà con Stefano Anastasia (tra i fondatori di Antigone) e Christian Raimo (giornalista e scrittore) sul tema delle carceri.
Dedicato ad Alessandro Leogrande, il Salone proporrà una riflessione e un confronto sui «tempi difficili» che stiamo attraversando. Tra le presentazioni, «Atlante delle guerre e dei conflitti
del mondo» (Terra Nuova), «Afrotopia» di Felwine Sarr, edizioni dell’Asino, «Sconfinate», a cura di Emanuele Giordana, «1947», incontro con Elisabeth Åsbrink, «Malaterra, come hanno avvelenato l’Italia» di Marina Forti per Laterza.

* Fonte: Vincenzo Scalia, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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