Stato d’emergenza a Tripoli, evacuati diplomatici e tecnici italiani
Ufficialmente l’ambasciata italiana non chiude, ma la situazione a Tripoli si è fatta talmente critica che una parte del personale viene evacuata assieme ad altri concittadini che lavorano in Libia. «Siamo pronti ad ogni evenienza. Reagiamo in modo flessibile», spiegano cauti i portavoce della Farnesina. Tale «flessibilità» ha implicazioni già molto tangibili. Ieri pomeriggio una nave dell’Eni che fa regolarmente la spola con il porto di Tripoli, dove stazionano anche le unità della marina militare italiana che assistono i guardiacoste libici, ha evacuato un numero considerevole di tecnici italiani impiegati a terminali e pozzi che fanno capo al complesso di Mellitah, nell’ovest del Paese. Con loro sono stati evacuati anche otto dipendenti dell’ambasciata. «È una misura puramente precauzionale. Allontaniamo temporaneamente il personale non strettamente necessario, che tornerà appena la situazione si sarà calmata», dicono alte fonti diplomatiche. L’utilizzo della nave Eni si è reso indispensabile dopo che i combattimenti si sono avvicinati minacciosamente alla pista dell’aeroporto di Tripoli, tanto da spingere il governo di Fayez Sarraj a decretarne la chiusura. Anche i 200 chilometri di litoranea per lo scalo di Misurata sono poco sicuri.
Alla sede dell’ambasciata restano comunque sei diplomatici, tra cui il numero due della missione, Nicola Orlando, e l’addetto agli affari politici, economici e al servizio stampa, Steve Forzieri. A garantire della loro incolumità sono presenti i carabinieri e gli uomini dei servizi di sicurezza. Il collaboratore locale del Corriere ha notato ieri pomeriggio che la bandiera italiana sventola sul pennone dell’edificio, però le persiane sono chiuse e all’esterno stazionano almeno due auto della polizia libica con una decina d’agenti. Per il momento resta invece in «vacanza» all’estero l’ambasciatore Giuseppe Perrone. Il suo basso profilo si è reso necessario dopo che il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che da tempo non nasconde l’intenzione di allagare il suo controllo sulla piazza di Tripoli, agli inizi di agosto ne aveva pubblicamente chiesto l’espulsione dal Paese. Da allora sui social media locali sono cresciute le voci di un’eventuale rimozione di Perrone dal suo incarico, che vengono prontamente smentite dalla Farnesina.
Ma l’incertezza dell’evoluzione militare rischia di pregiudicare i tentativi di mediazione italiani. Non è neppure chiaro se si riuscirà a tenere a Roma la preannunciata conferenza sulla Libia entro la fine di settembre. La possibilità sempre più reale dell’eclissi di Sarraj toglierebbe all’Italia il suo partner storico. Un passo importante potrebbe rivelarsi l’incontro, previsto ma senza una data specifica, tra il ministro degli Esteri italiano Moavero e Haftar. Sino ad ora infatti i contatti pubblici del nuovo governo italiano sono stati unicamente con la coalizione di unità nazionale di Tripoli e in particolare con il vice-premier Ahmed Maiteeq (che dovrebbe tornare a vedere Matteo Salvini a Roma questa settimana), considerato uno degli avversari più acerrimi di Haftar. A Tripoli intanto Sarraj lancia appelli per la pacificazione e proclama lo stato d’emergenza. Pure, i cessate il fuoco vengono metodicamente violati. La Settima Brigata, che fa capo alle tribù leali all’ex regime di Gheddafi e adesso vicine al campo di Haftar, continua ad avanzare verso il cuore della capitale dove le milizie locali sembrano divise e incapaci di reggere il colpo. Scontri violenti sono registrati nella zona dell’aeroporto, oltre ai quartieri di Abu Salim, Salahaddin e Rabiah. Il numero dei morti si avvicina a quota duecento. Nella regione cominciano a scarseggiare benzina, acqua ed elettricità. E ieri sera dal carcere della capitale sono evasi 400 detenuti.
* FONTE: Lorenzo Cremonesi, CORRIERE DELLA SERA
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