Decreto “dignità” e Jobs Act pari sono, il cambiamento che non c’è
Corte costituzionale . Dopo il pronunciamento della Consulta sugli indennizzi , il vicepremier ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio ha sostenuto che il primo provvedimento sul lavoro del governo Lega-Cinque Stelle ha cambiato la riforma di Renzi e del Pd. Ma così non è: lo storytelling ha il fiato corto
La sentenza della Corte costituzionale ha confermato la continuità tra il Jobs Act e il «Decreto dignità» per quanto riguarda l’indennità che spetta al lavoratore licenziato in maniera ingiusta. L’unica differenza sono le mensilità da risarcire: nel Jobs Act minimo 4, massimo 24; nel «decreto dignità» 6-36. Ma il vicepremier ministro del lavoro e sviluppo Luigi Di Maio non se ne è accorto e ha preferito attaccare il Pd, e Renzi, per dimostrare una differenza tra il vecchio e il nuovo approccio del governo Lega-Cinque Stelle che, al momento, non esiste.
«IL JOBS ACT abbiamo iniziato a smantellarlo non solo noi, ma anche la Corte costituzionale – ha detto Di Maio – Il partito che doveva difendere i lavoratori con il Jobs act ha eliminato i loro diritti e le loro tutele». «Bene aveva fatto il decreto Dignità ad andare nella direzione che oggi indica la Consulta aumentando le indennità per i lavoratori licenziati ingiustamente». E poi la promessa, già sventolata nel periodo pre-elettorale ma latitante nel «contratto di governo»: «Sistemeremo le assurde storture» causate da quella legge e «torneremo all’epoca pre-Jobs act, che ha tolto ai lavoratori un sacco di diritti».
L’OCCASIONE DI RISTABILIRE ed estendere la tutela reale nei casi di licenziamenti illegittimi (l’articolo 18) abolito dal Pd con il Jobs Act è stata non casualmente persa tra luglio e agosto, durante la discussione e l’approvazione del «decreto dignità dei lavoratori e delle imprese». Il provvedimento è stato presentato come la «Waterloo del precariato» e ha esteso i voucher, simbolo del precariato, nel turismo e in agricoltura per tenere buona la Lega. La stessa riduzione della durata dei contratti a termine (da 36 a 24 mesi), del numero dei rinnovi (da 5 a 4) e il ripristino della causale dopo 12 mesi è una manutenzione del Jobs Act che, con il «decreto Poletti» aveva liberalizzato i contratti a termine, ma non un suo rovesciamento dato che resta nel solco della prassi dominante: monetizzazione dei rapporti di lavoro; interpretare la forza lavoro come una scorta di magazzino a disposizione dell’impresa. In attesa delle motivazioni della sentenza, non è nemmeno escluso che lo stesso «Decreto dignità» possa subire la sorte riservata al Jobs Act di Renzi, dato che non modifica l’orientamento di fondo sulla questione specifica degli indennizzi. Un paradosso nemmeno troppo lontano dal diventare reale se qualcuno facesse un ricorso.
LO STORYTELLING RIAFFERMATO ieri da Di Maio va rubricato nella categoria orwelliana del bispensiero: la capacità di affermare una cosa e il suo contrario, il governo del «cambiamento» è quello della continuità. Oggi non si può parlare di una visione alternativa, mentre sussistono le diseguaglianze tra i neo-assunti con il Jobs Act e coloro che sono stati assunti prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore della renzianissima riforma. La narrazione in atto tende a cancellare la contraddizione che, in mancanza di provvedimenti di segno radicalmente diverso, resta intatta.
«LA REINTEGRAZIONE al di là della modalità di calcolo dell’indennizzo è l’unico strumento di tutela» sostiene Beatrice Brignone (Possibile). «M5S dovrebbe ascoltarci a differenza di quanto ha fatto con il decreto dignità – sostiene Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana/LeU) – serve ripristinare l’ articolo 18». «La sentenza ci ricorda che il Jobs Act scritto da Confindustria e approvato da Pd è una schifezza – sostiene Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista) – che il governo gialloverde non ha ancora abolito come si era impegnato a fare».
* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO
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