by Marco Simoncelli * | 3 Agosto 2018 9:59
MAPUTO. Mentre scriviamo, in Zimbabwe stanno per essere resi pubblici i risultati delle elezioni presidenziali di lunedì, ma in un contesto molto diverso da quello che molti sognavano alla vigilia dello scrutinio.
«Pensavamo che tutto questo fosse finito». Questa è la frase pronunciata dalle persone intervistate ieri fra le strade deserte della capitale zimbabwana Harare. Ed è anche quella più adatta a descrivere come il clima di speranza e fiducia nato dalla deposizione dell’anziano dittatore Robert Mugabe lo scorso novembre, sia stato sostituito da paura e violenza.
Martedì mattina la Commissione elettorale dello Zimbabwe (Zec) aveva annunciato che alle 15 avrebbe pubblicato i primi risultati delle elezioni generali che lunedì hanno chiamato 5,5 milioni di cittadini a scegliere, parlamentari, amministratori locali e soprattutto un nuovo capo di Stato.
Quei risultati però non venivano annunciati, né veniva data una spiegazione dei ritardi. Perfino gli osservatori internazionali dell’Ue avevano espresso perplessità sulla lentezza organizzativa. La cosa non ha fatto che alimentare l’attesa e l’ansia in una nazione che vedeva questo voto come l’appuntamento con la storia e il cambiamento tanto agognato. Ad alimentare il clima già carico di elettricità c’erano state le dichiarazioni prematuramente vittoriose dei due principali aspiranti alla presidenza.
Da una parte il presidente uscente Emmerson Mnangagwa, candidato del partito Zanu-Pf da sempre al potere, e dall’altra il giovane oppositore Nelson Chamisa del Movimento per il cambiamento democratico (Mdc). Proprio l’Mdc quella stessa sera, prima ancora che la Zec si facesse finalmente viva, aveva accusato la Commissione di voler rallentare la diffusione dei risultati per poter manipolare il voto a favore dello Zanu-Pf e ribadito che secondo i suoi dati (mai rivelati) Chamisa era il vincitore.
Quei risultati hanno iniziato a essere divulgati qualche ora dopo descrivendo però un quadro diametralmente opposto. Mercoledì mattina la Zec ha reso pubblico l’esito definitivo delle elezioni legislative che sanciva una vittoria netta dello Zanu-Pf che, grazie ai successi nelle zone rurali, ha vinto 145 seggi contro i 63 dell’Mdc, ottenendo una maggioranza di due terzi in Parlamento.
È stato allora che Chamisa via tweet ha annunciato di aver conquistato «il voto popolare» e che nessuna «manipolazione dei risultati» avrebbe potuto «alterare questa volontà». I suoi sostenitori sono scesi fra le strade di Harare per denunciare i brogli elettorali.
La protesta sembrava pacifica, ma in poco tempo si è trasformata. Sfidati dalla polizia, alcuni manifestanti hanno iniziato a bruciare auto, creare barricate dando fuoco a pneumatici e a lanciare pietre contro le forze dell’ordine. Su viale Samora Machel, mentre elicotteri volavano minacciosi tra gli alti palazzi che rappresentano il centro economico del paese, hanno iniziato a sfilare blindati militari e camion di soldati a volto coperto. Stava iniziando una violenta repressione contro la folla con l’uso di idranti, lacrimogeni e infine con proiettili veri.
Quando tutto è finito non è rimasto altro che contare vittime e feriti. Secondo quanto annunciato ieri sera dal portavoce della polizia, i morti sono saliti a sei quando tre dei 17 feriti sono deceduti in ospedale.
Harare da allora è una città fantasma con negozi chiusi e strade deserte, occupate solo da esercito e forze dell’ordine in attesa che vengano pronunciati i risultati dalla Zec, che ha rimandato più volte l’annuncio ribadendo che non ci sarebbero «imbrogli» dietro i ritardi.
La repressione dell’esercito è stata duramente condannata dall’opposizione che l’ha definita ingiustificata e volta a intimidire gli elettori. Trasversali le condanne di tutte le organizzazioni e potenze internazionali che hanno chiesto moderazione. Questo non è certo un buon segno per Mnangagwa e il suo governo, che vedono forse svanire le speranze di dare un’immagine ordinata del voto per legittimarsi agli occhi del mondo e degli investitori, dopo il golpe bianco con cui hanno cacciato il nonagenario Mugabe.
Ieri Mnangagwa ha provato a rimediare rivolgendo un appello alla calma e alla moderazione e dicendosi in contatto con Chamisa «per gestire la situazione e mantenere la pace». Quest’ultimo in delle dichiarazioni rilasciate in tarda serata sembra aver accettato il risultato legislativo, ma continua a ribadire di aver vinto il voto presidenziale. E denuncia: ieri la polizia ha fatto irruzione in una sede Mdc, confiscato computer e fermato 12 persone.
Regna l’incertezza ed è singolare notare quanto l’ambiente ad Harare strida con le immagini di appena otto mesi fa quando i cittadini abbracciavano i militari e celebravano il loro ruolo di salvatori per averli liberati da un regime durato 37 anni.
«Ci hanno ingannati», «ora sappiamo chi sono veramente», si sente esclamare fra la gente. Rabbia e sgomento emergono fra chi sembra aver visto infrangersi in un istante quel breve sogno di libertà che aveva atteso per decenni.
Viene alimentato sempre di più il sospetto che chi lanciò quell’azione sia di fatto il vero governante del paese e voglia restare dov’è. Vale a dire l’élite politico-militare formata dai veterani dello Zanu-Pf e della lotta per l’indipendenza e incancrenita da anni di corruzione e potere.
* Fonte:
IL MANIFESTO[1]
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