Quando non c’è una cultura politica di riferimento, prevale la natura, cioè il carattere, l’essenza stessa delle persone e delle loro azioni, non più mediate dai grandi riferimenti storici della tradizione. È quel che capita oggi. Assistiamo ad una specie di confessione pubblica, dove la lottizzazione del nuovo governo che si è autodefinito “del cambiamento” lo rivela in realtà uguale ai precedenti nella corsa ai posti e soprattutto nell’insicurezza di un potere da munire ad ogni costo: ma fin qui nessuna sorpresa, almeno per chi non ha mai creduto alla leggenda della diversità grillina, e non dimentica che per vent’anni seduta al banchetto berlusconiano c’è stata sempre la Lega, un partito che oggi sembra arrivare dalla luna, mentre in realtà era parcheggiato più modestamente tra gli alberi di Arcore.
Il vero disvelamento è nell’idea d’Italia che il governo ha in testa, che i due partiti di maggioranza inseguono e che le nomine riproducono. Il punto più critico è probabilmente la concezione del lavoro, dell’impresa, del mondo della produzione e del “fare”, dove s’intravvede una crepa tra l’insediamento lombardo- veneto della Lega, con la spinta imprenditoriale a mettersi in proprio chiedendo alla politica di sciogliere lacci e lacciuoli lasciando all’impresa mani libere, e la diffidenza grillina: per i poteri forti, naturalmente, ma in realtà per tutti i poteri autonomi in alto e in basso, nel sociale come nel mondo aziendale, dalla Tav all’acciaio, da Nord a Sud, senza un’idea di sviluppo, senza una base sociale di riferimento, perché senza un progetto di società.
Tenere la spina del risentimento conficcata nel fianco del Paese mentre lo si governa è un esperimento inedito e in qualche modo contro natura, perché la vittoria elettorale dovrebbe trasformare la ribellione in governo, emancipandola. Ma in questo caso, il risentimento è il movente unico e l’orizzonte, dunque, è il mandato stesso del populismo, quindi è la sua stessa politica in forma simbolica, fonte perenne e inesauribile. Aggiungiamo che dopo la torsione della Lega in direzione sovranista, lepenista, orbanista ( molto poco italiana se si guardano le nostre tradizioni, la nostra cultura, il nostro linguaggio, dove si sono innestate forme innaturali e ostentate di brutalità e disumanità a cui non eravamo abituati) il risentimento è diventato un territorio comune dei due populismi di governo. Un territorio dove la neo-destra seleziona nuovi elettori, con cui scambia continuamente autorizzazioni (puoi continuare a ribellarti al sistema), rassicurazioni (la tua rabbia è ben riposta), segnali di riconoscimento: noi siamo come te, il potere non ci cambierà.
Ecco dunque il bisogno, per la nomina più indicativa dal punto di vista culturale, la presidenza Rai, di parlare alla propria gente, di riassumere promesse e vendette, di forzare il limite. La legge prevede una maggioranza dei due terzi, cioè un nome concordato, con un’intesa larga? Salvini prova a fare di testa sua. Non solo. Cerca un profilo che non si annunci di garanzia, come vorrebbe la regola e il buon senso — troppe volte violato — della gestione aziendale. Un profilo, come ha spiegato Stefano Folli, scientificamente scelto come anti-establishment. In più filo Putin, no vax, anti-euro, critico con Mattarella, pronto a ritwittare Casa Pound. Un outsider per la più grande fabbrica culturale italiana.
Ce n’è abbastanza perché Di Maio — uno che chiede l’impeachment del capo dello Stato come si chiede un aperitivo al bar — abbocchi entusiasta e approvi la candidatura avanzata da Salvini: ha tutti gli ingredienti giusti, applaude festoso anche Di Battista, come sempre quando si alzano le polveri di destra. E infatti Giorgia Meloni sente aria di sovranismo putiniano, e si accoda.
Al momento i voti non bastano per eleggere il presidente voluto da Salvini. Ma in questo caso al popolo del risentimento si dirà che le forze della conservazione hanno impedito il cambiamento perché vogliono tenere le mani sulla Rai, ma la spallata è comunque assicurata.
Poiché tutto ciò che riguarda la Rai va visto come un vaticinio, quei voti, se Berlusconi dirà no, in realtà rischiano di bastare per far nascere due destre, spaccando definitivamente il fronte. Non è una novità da poco. La seconda destra teoricamente moderata, tutta da inventare e da definire, è oggi residuale. La prima, estremista e sovranista, ha già inglobato i grillini, talmente informi politicamente da prendere l’impronta dello scarpone leghista, talmente incolori culturalmente da tacere davanti alle prove di razzismo moltiplicate nel Paese che governano, dopo mesi di seminazione di odio. Soltanto, una domanda: tutta questa deriva, era nel contratto?