IL CONTRASTO A RAZZISMO E XENOFOBIA IN EUROPA

by Susanna Ronconi, dal 15° Rapporto sui diritti globali | 13 Agosto 2018 7:02

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Lo “straniero” è il primo nemico perfetto delle società occidentali globalizzate. Il campo in cui maggiormente e precocemente si è cercato di agire, a livello comunitario, sia contro hate speech che contro hate crimes, è quello relativo al razzismo e alla xenofobia; solo in seguito si affronteranno altri ambiti, via via che il discorso d’odio si allarga a macchia d’olio e coinvolge soggetti diversi, da quello LGBTI alla disabilità, fino a toccare gruppi che minoritari non si possono certo definire, come le donne.

Contro razzismo e xenofobia entra in campo la vasta produzione dei diversi organismi comunitari – Commissione, Consiglio e Parlamento – attorno ai temi della lotta alle discriminazioni, che sono la cornice, ideale e normativa, per ogni ulteriore atto mirato contro discorsi e reati d’odio. Nello specifico, un primo testo di riferimento è del 1997, una Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che esplicitamente cita il problema dello hate speech: ne tratteggia una definizione, ed esplicitamente condanna ogni forma di espressione che inciti all’odio razziale, alla xenofobia, all’antisemitismo o all’intolleranza in tutte le sue forme. In questo documento si trova anche la sottolineatura di come il discorso d’odio abbia nei media un amplificatore di effetti e atti concreti contro i destinatari (Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, 1997).

Un secondo testo di riferimento è la Decisione quadro sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, adottata nel 2008 dal Consiglio dell’Unione Europea. In essa si legge che il fenomeno dello hate speech non può essere affrontato solo in termini di diritto penale, certo riconoscendo i limiti dell’approccio penale stesso nei confronti di un fenomeno complesso, e i rischi di collusione con il diritto di espressione, e dunque si limita a combattere penalmente «forme di razzismo e xenofobia particolarmente gravi»; ma anche registra le profonde differenze tra gli ordinamenti nazionali degli Stati membri e la reale difficoltà di modificare questo stato di cose, tanto che il testo da un lato invita a «ravvicinare ulteriormente il diritto penale degli Stati membri per garantire l’efficace applicazione di una normativa chiara ed esaustiva per lottare contro il razzismo e la xenofobia», ma subito dopo afferma che «poiché le tradizioni culturali e giuridiche degli Stati membri sono in parte diverse, in particolare in questo campo, non è attualmente possibile una piena armonizzazione delle norme penali». La Decisione quadro si limita a chiedere agli Stati membri di rendere punibili tre tipi di condotta, in relazione all’odio razziale: l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo specifico di persone; l’istigazione mediante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale, dunque focalizzando fin da subito, già dieci anni fa, il nodo della comunicazione; l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. Lo stesso testo prevede che l’odio razziale sia un aggravante relativamente ad altre fattispecie di reato (Consiglio dell’Unione Europea, 2008).

Lo sforzo comunitario, a ogni buon conto, come spesso accade non ha avuto grande incisività sull’omogeneizzazione delle normative dei singoli Strati membri, le cui legislazioni e, oltre il penale, le cui azioni di contrasto sul piano sociale e culturale mantengono a oggi una mappa assai disuguale.

Questi primi documenti affrontavano l’emergenza razzismo nei Paesi membri dell’Unione, a fronte dello sviluppo dell’odio razziale, xenofobo e antireligioso come reazione di una parte minoritaria della società (e della politica) ai fenomeni dell’immigrazione: ma questo intento politico e impegno normativo avvenivano quando i flussi migratori apparivano ai governanti comunitari ancora sostanzialmente funzionali, o comunque governabili in via “ordinaria”, subito prima della grande crisi economica globale e soprattutto subito prima del grande esodo di intere popolazione dall’incrudelirsi dello scenario globale fatto di guerre e crisi umanitarie. Il crollo delle retoriche comunitarie su diritti e inclusione nel discorso pubblico (e nel consenso), la chiusura delle frontiere e il trionfo della strategia del respingimento ha tenuto in piedi l’impianto normativo come un involucro che appare oggi svuotato, un contenitore che continua a produrre raccomandazioni e progetti, ma al tempo stesso li depotenzia di ogni possibile incisività, come una fatica di Sisifo: se l’integrazione in una società multiculturale è l’orizzonte, la lotta allo hate speech è funzionale a creare il giusto clima, ma se si tratta di “proteggere” le proprie frontiere e le proprie società da una “invasione” e avere su questo consenso, diventa di contro funzionale ciò che lo hate speech vuole comunicare e sarà certo meno convinta, e priva di ragioni strutturali, ogni azione di contrasto.

 

LINGUAGGIO VIOLENTO IN PARLAMENTO. L’EUROPA PROVVEDE

Lo hate speech riecheggia nella politica, non solo nei comizi di piazza dei populisti, ma fin nei suoi luoghi più istituzionali. Così, il Parlamento Europeo, su iniziativa di socialisti e democratici, dal 1° gennaio 2017, adotta nuove regole di condotta. Il Regolamento ora prevede sanzioni in caso di uso di un «linguaggio diffamatorio, razzista o xenofobo», che arrivano fino a una sospensione della retribuzione per 30 giorni e al divieto di rappresentare il Parlamento Europeo all’esterno della UE per un anno. Alla stesura del Regolamento hanno collaborato l’agenzia ENAR (European Network Against Racism) e ILGA-Europe, che difende i diritti della comunità LGBTI.

Michael Privot, direttore di ENAR, dice che questo atto è «un chiaro segnale che il Parlamento prende molto sul serio il tema del discorso d’odio e del razzismo. Se un politico incita all’odio deve risponderne ed essere sanzionato». E auspica simili provvedimenti da parte dei Parlamenti nazionali (Parlamento Europeo, 2017; Privot, 2016).

 

Migranti e rifugiati. Quando l’odio si fa “senso comune”

Secondo l’European Commission against Racism and Intolerance (ECRI), l’agenzia comunitaria contro il razzismo fondata nel 1992 e rilanciata e consolidata nel 2002, il 2016 è stato caratterizzato – oltre che dall’allarme terrorismo internazionale – da un’altra emergenza, quella di una «forte impennata di un populismo nazionalista che spesso genera e diffonde un discorso xenofobo e in ultima analisi crea un contesto in cui lo hate speech e poi la violenza possono attecchire facilmente». L’agenzia sottolinea il nesso tra crisi, impoverimento e nuove incertezze per i nativi europei e la crescita dell’intolleranza e del razzismo, ma sottolinea anche come, se alcuni problemi di coesione sociale sono reali e vanno assunti dalla politica, è anche vero che la politica nella sua versione populista è a sua volta volano di odio e intolleranza. Insomma, più delle contraddizioni reali sono la loro amplificazione e gestione politica a farne una variabile cruciale di quel processo che vede «l’insulto razzista e il discorso d’odio raggiungere livelli precedentemente impensabili». Con la conseguenza di «mettere in discussione il cuore stesso dei valori europei di eguaglianza, diritti fondamentali e rispetto della dignità umana». Ciò che fa ulteriore problema, dice ECRI, è che questa ondata di odio investe non solo gli ultimi arrivati ma finisce con il rovesciarsi sui migranti che sono ormai cittadini europei, magari da generazioni, remando contro decenni di politiche di integrazione. In questo scenario, afferma l’Agenzia, i partiti tradizionali balbettano, spesso «facendo propri alcuni elementi di questa retorica populista per non perdere consenso, e finendo con l’amplificarli; in questo modo portano il discorso xenofobo dalla nicchia di una minoranza al pensiero mainstreaming» (ECRI, 2017).

 

photo: By Alisdare Hickson from Canterbury, United Kingdom [CC BY-SA 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0)], via Wikimedia Commons

 

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