Come scardinare il fragile «noi» che fonda gli odierni populismi
La ripresa delle ideologie e delle politiche nazionaliste è un fenomeno che attraversa ormai gran parte del pianeta, e dell’Occidente nelle sue forme ancora democratico-parlamentari. Benché le caratteristiche che questa assume in ciascun paese siano molto diverse, per la storia da cui attingono e per la disparità di risorse e di potere reale tra le differenti entità nazionali, presenta nondimeno tratti comuni il più appariscente dei quali è l’ostilità nei confronti dei migranti frequentemente estesa agli «stranieri» in generale.
A QUESTO ASPETTO si può aggiungere l’impostazione «competitiva» dei contrapposti «interessi nazionali» che può assumere tanto la veste protezionista quanto quella che reclama la sacralità del libero mercato.
Si può spiegare questo esito, non ancora alle sue estreme conseguenze, solo come crisi di rigetto della globalizzazione? E quali sono i fattori interni ai processi globali che avrebbero generato questo rifiuto e i suoi riflessi ideologici?
Possiamo tentare di applicare uno schema, sia pure tagliato con l’accetta, che, mettendo in fila fenomeni ben noti e ricorrendo a categorie classiche della filosofia politica, si azzardi a ricostruire le fratture e i passaggi che hanno condotto a questo nazionalismo di inizio millennio. A partire da una precisa domanda: in che cosa si distingue il popolo a cui si appellano oggi i cosiddetti populisti da quello che ha agito nella storia delle società occidentali diciamo con una scelta arbitraria tra il 1848 e la fine del sistema produttivo fordista? Tra quel popolo e questo attuale è intercorsa una fase che alcuni hanno voluto interpretare attraverso la figura politica della moltitudine. Ma procediamo con ordine.
IL POPOLO dei due scorsi secoli presentava un evidente riferimento di classe. Il suo cuore operaio si situava al centro dello sviluppo produttivo e, al tempo stesso, dello sfruttamento. Condizione di esistenza del sistema e, insieme, potenzialità del suo superamento. La classe dava forma e direzione di marcia all’indistinzione subordinata del popolo.
Che i fascismi riuscirono a ristabilire in alcuni paesi tra gli anni Venti e i Quaranta, al mostruoso prezzo che conosciamo. Il «noi», il legame collettivo fu conteso in quei frangenti tra la classe e la patria, tra il nazionalismo e l’internazionalismo.
CON LA FINE DEL CAPITALISMO prevalentemente industriale e la forma dominante del rapporto tra capitale e lavoro che lo contraddistingueva, con l’intreccio sempre più stretto tra economia e politica e il fluidificarsi delle figure sociali, l’orizzonte della classe e in misura minore quello della sovranità nazionale cominciarono a declinare. Il comando del capitale sui soggetti delle attività produttive assumeva forme oblique e sempre meno vincolate a obblighi e garanzie.
QUESTI PRODUTTORI, messi «in libertà» dalla riorganizzazione capitalistica e dall’automazione, dovevano affidarsi all’insieme delle proprie facoltà e risorse per trovare collocazione e sostentamento nel contesto di una società comunque sottoposta al perenne ricatto di una poderosa concentrazione di capitale e di potere. Né popolo, né classe queste vite sfruttate sono state interpretate con la categoria della moltitudine, intendendo con questo soggetti che, trattenendo presso di sé le proprie prerogative, non più scissi tra lavoro eterodiretto e vita relazionale, potevano tentare di sottrarsi al comando di un potere sovraordinato e aspirare alla ricerca di una dimensione comune autogovernata nello scontro con i dispositivi predatori del capitale.
NON SI TRATTA QUI DI VALUTARE la pertinenza o il rigore di questa interpretazione, ma di identificare un passaggio nel quale la rappresentanza politica, la sovranità nazionale e la potenza sovranazionale della finanza furono prevalentemente considerate in diretta contraddizione con la possibilità stessa della democrazia.
E SE IL POTERE GLOBALE del capitale non ha mai mollato le redini, le prime due entrano in crisi, il che certo non rimuove né i loro fallimenti né le loro connotazioni autoreferenziali e oppressive. Non vi è dubbio, in ogni modo, che nella breve stagione altermondialista il gergo del nazionalismo e della xenofobia venne messo al bando, in nome di una alleanza mondiale dei movimenti. Toccherà a una impressionante sequenza di terrore e di violenza riportarlo in auge polverizzando ciò che aveva mosso i primi passi a Seattle nel 1999.
DALL’11 SETTEMBRE DEL 2001 alla guerra afghana e poi irachena e tutte quelle che l’avrebbero seguita, agli attentati in Europa e nel mondo, fino agli «stati di eccezione» decretati dai governi europei d’ogni colore in risposta al terrorismo e a qualunque forma di disordine sociale. La «grande crisi», nelle sue diverse fasi, avrebbe poi completato l’opera. È a questo punto che il «popolo» ritorna sulla scena. Ma non è più quello, vagheggiato da una certa sinistra, guidato dalla Marianna di Delacroix.
IL «POPOLO» è diventato interamente «nazionale». La contesa tra patria e classe si è chiusa a vantaggio della prima. Il nuovo «noi» nasce in immediata contraddizione con l’«altro».
E, soprattutto, affida il suo riscatto a un potere forte, a qualcuno che agisca «per il suo bene». Se proprio non si mette nelle mani di un pastore, il governo gli si offre quantomeno come «avvocato», dimostrando una concezione aberrante della democrazia. La società reale non ha ritrovato alcuna omogeneità, ma gliene viene imposta una fittizia fondata sul primato di un nome: gli italiani, i tedeschi, gli austriaci, gli olandesi e così via. Ogni autonomia, ogni aspettativa e ogni potere diffuso nel tessuto sociale vengono consegnati alla Legge incaricata di garantire l’ordine stabilito dai governanti. Ma questo popolo fittizio che galleggia su una società complessa abitata da identità multiple e stratificate non le corrisponde affatto.
LA RAPPRESENTANZA che sembra essere stata riesumata dal nazional-populismo non è che la rappresentanza degli umori e delle frustrazioni. Volatile e bisognosa di un decisionismo ossessivo e digiuno di qualsivoglia argomentazione razionale, non ha relazione alcuna con gli interessi reali. Fatte salve le attenzioni mai trascurate nei confronti di quelli corporativi. Il «partito della nazione» aveva del resto già espiantato la conflittualità sociale e aperto così la strada alla sua sostituzione con l’ostilità nei confronti dell’«altro». Il migrante, né popolo né classe per eccellenza, del quale forse solo «moltitudine» può descrivere natura e condizione, diventa così il nemico proverbiale del sovranismo di destra e di sinistra.
IL TALLONE D’ACHILLE di questa costruzione ideologica, centrata su un bisogno di sicurezza nutrito di rappresentazioni apocalittiche e false promesse, consiste proprio nella sua incongruenza con una società che non può più essere ricondotta alla disciplina stanziale e unidimensionale della Nazione e del lavoro salariato. Il «noi» su cui poggia è fragile e soffocante al tempo stesso. Può essere decostruito. Il maccartismo perseguitò le sinistre con l’accusa di svolgere «attività antiamericane». E, forse, in questo frangente, è proprio ad «attività antitaliane» che dovremmo dedicarci.
Intendendo con questo la libertà dei soggetti reali di autorganizzarsi fuori da quella «casa comune» che va assumendo sempre più le sembianze di una caserma e contro l’autorità che ne ha assunto rumorosamente il comando.
* Fonte: Marco Bascetta, IL MANIFESTO
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