USA. Tolleranza zero con i baby migranti:  “Zitto o ti fanno la puntura”, le regole shock

by Anna Lombardi * | 16 Luglio 2018 10:56

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New York. « Comportati bene o ti fanno la puntura». Diego Magalhaes, 10 anni, l’ha capito subito: nel “ rifugio” di Chicago dove è rimasto per 43 giorni, era meglio seguire le regole. Arrivato in America con la mamma a maggio dopo un lungo viaggio in pullman iniziato in Brasile è stato separato da lei appena passato il confine. È un bravo bambino e non ha avuto paura: « Ho pulito i gabinetti, raccolto l’immondizia. Dormivo con altri due brasiliani: e siccome ci comportavamo bene potevamo giocare ai videogame. Mica come Adonias…». Piangeva e buttava tutto a terra il guatemalteco Adonias. « Il dottore veniva in classe a fargli la puntura. E lui cascava addormentato » . Ora un tribunale di Chicago ha restituito Diego alla mamma, Sirley Paixao: « Le ho detto che non ho mai pianto, come avevo promesso».

È passata una settimana da quando il giudice federale Dana Makoto Sabraw ha imposto all’amministrazione Trump le deadline per riunire i piccoli migranti ai genitori, dopo che lo stesso presidente era stato costretto a fare un passo indietro sulla sua politica di “tolleranza zero” verso chi passa il confine con i figli. Passata la scadenza del 10 luglio, che riguardava 103 bimbi sotto i 5 anni, di cui solo 57 sono stati restituiti mentre la sorte degli altri 46 resta nel limbo — mamme e papà già deportati o non ritracciabili — la nuova scadenza riguarda i più grandicelli. Ben 2.800 ragazzini che, al ritmo di 200 al giorno, devono riabbracciare le famiglie entro il 26 luglio, «termine inderogabile » come dice il giudice Sabraw: «Non un’enunciazione programmatica».
Le riunificazioni sono dunque cominciate. E il New York Times ha chiesto direttamente ai ragazzi come hanno affrontato la vita nei centri dove sono stati rinchiusi. Luoghi che non sono tutti uguali: in base alla fortuna, si può finire nel bucolico rifugio di Yonkers, nello stato di New York, immerso nel verde e con piscina. O nell’inferno delle gabbie di McAllen, in Texas. Bene o male che vada, però, una cosa è uguale per tutti: la vita militarmente organizzata secondo regole che sono ovunque le stesse. Le luci si accendono alle 6 e si spengono alle 9: e in quelle ore bisogna lavare i gabinetti, finire la pappa, seguire le lezioni anche se non sempre sono in spagnolo. « E poi devi metterti in fila per qualunque cosa » , racconta Leticia, 12 anni, arrivata dal Guatemala con la mamma e il fratellino Walter di 10, rinchiuso con lei in un centro di San Antonio, Texas. «Maschi e femmine sono separati. Non si possono avere contatti fisici nemmeno se fratelli. Così non ho mai potuto abbracciare Walter per consolarlo ».
Il giorno più difficile di Victor Monroy è stato il 24 giugno: « Compivo 11 anni. Ma nessuno ha cantato per me come faceva la mamma. Ho detto agli adulti che era il mio compleanno. Feliz Cumpleños dicevano: e mi voltavano le spalle » . Guatemalteco anche lui, ha trascorso 41 giorni nel centro Casa Guadalupe nel Bronx, New York, insieme alla sorella Leidy di 9 anni. «La vedevo mezz’ora al giorno, a ricreazione. Avevamo paura: per un mese non abbiamo avuto notizie di nessuno». Finché Linda, l’assistente sociale non ha rintracciato il papà a cui ora sono affidati: « Franklin, il mio compagno di stanza, l’ultima notte non ha dormito: era triste che lo lasciavo » . I più piccoli, naturalmente non parlano: ma fioccano le denunce sulle loro condizioni. Olivia Caceres, arrivata dal Salvador ha ritrovato Mateo, di 1 anno, dopo 85 giorni: «Puzzava e aveva i pidocchi. Come se nessuno lo avesse lavato per tutto quel tempo». E chissà se anche lui ha imparato a non piangere mai: per non rischiare la puntura.

* Fonte: Anna Lombardi, LA REPUBBLICA[1]

photo: By Molly Adams from USA (Los Angeles March for Immigrant Rights) [CC BY 2.0 ], via Wikimedia Commons

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Endnotes:
  1. LA REPUBBLICA: http://www.repubblica.it/

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