Un mare di magliette rosse in nome dell’umanità
Un’onda improvvisa, colorata di rosso, in pochissime ore ha riempito le piazze di centinaia di città italiane, da nord a sud, senza distinzioni. Un moto di dignità, di rabbia e di solidarietà, spontanea. Un sentimento ed una voglia di partecipazione partita dal basso, e da dentro. Perché, in nome dell’umanità di cui facciamo parte, non possiamo rimanere fermi ed in silenzio davanti a quello che continua ad accadere nei nostri mari, che con la loro storia tanto ci ricordano. Ma evidentemente chi governa difetta di memoria, e si sa che senza memoria si è incapaci di leggere il presente e di immaginare un futuro.
Soprattutto per contrastare questa prospettiva oscura e senza speranze, è il momento di dire basta. Quei bambini che muoiono nel mediterraneo, quelle donne e quegli uomini che scappano da guerra e da condizioni economiche e sociali su cui l’occidente ed i nostri governi hanno gravissime responsabilità, interrogano innanzitutto le nostre coscienze, il modello di sviluppo, la governance europea, i gruppi dirigenti della politica italiana degli ultimi 20 anni.
Dalle piazze colorate di rosso in tutto il paese arriva un messaggio chiaro e forte di speranza: noi non siamo disponibili a tradire la nostra umanità, ci sentiamo profondamente solidali e vicini a tutti coloro che in questo momento sono ostaggi di scelte politiche che mostrano il livello di incapacità, cinismo e classismo di chi governa, siamo stufi e indignati di una classe dirigente politica che in maniera vergognosa e ipocrita avvelena da anni il cuore degli italiani raccontando l’enorme bugia dei migranti come principale problema del paese.
Le piazze rosse denunciano invece come i principali problemi del paese siano la povertà, le disuguaglianze, che sono esplose a livelli paragonabili solo ai periodi di guerra: 18,6 milioni di italiani a rischio esclusione, 5 in povertà assoluta, 9,3 relativa, mentre 12 milioni non si possono più curare e 1,2 sono bambini. Vergogna dunque a quei politici che occultano le loro responsabilità, spostando il problema sui più deboli così da scatenare una guerra tra poveri, facendo crescere la paura e l’insicurezza che sono benzina per odio e razzismo. Questi stessi politici che oggi dicono prima gli italiani sono gli stessi che ci hanno impoverito tagliando i fondi alle politiche sociali, si sono rifiutati di introdurre una misura di reddito minimo, hanno tagliato sulla sanità pubblica, sulle scuole, hanno reso più precario e intermittente il lavoro, legittimando persino quello gratuito.
Con le loro scelte politiche hanno allargato la zona grigia, quella che favorisce le mafie. Perché non possiamo più nascondere quello che vediamo tutti i giorni nelle nostre periferie: il welfare sostitutivo delle mafie sta subentrando al vuoto lasciato dalle politiche sociali che sono state quasi cancellate insieme al nostro sistema di protezione sociale. Senza giustizia sociali è impossibile sconfiggere le mafie e la corruzione che si avvantaggiano della povertà economica, culturale e relazionale.
È su questo che esigiamo risposte! Ed allora è una bella giornata quando finalmente a partire dall’appello lanciato da don Luigi Ciotti, presidente di Libera e del Gruppo Abele, insieme al giornalista Francesco Viviano ed ai presidenti di Anpi, Arci e Legambiente, ci si ritrova in tanti in carne ed ossa nelle piazze reali, non virtuali, per dire a voce unica che non siamo disponibili a vedere affondare la nostra umanità su quei barconi. E che il vero problema del nostro paese come della nostra Europa è la questione sociale, e non i migranti o gli impoveriti, che sono due volte vittime: prima di un modello economico insostenibile socialmente ed ecologicamente, e poi dell’ipocrisia di un ceto politico prono agli interessi delle elite economiche e finanziare che hanno prodotto la crisi.
Siamo consapevoli che la strada è lunga. Ma è da momenti simbolici capaci di organizzare il dissenso, costruire un nuovo linguaggio e nuova solidarietà che dobbiamo ripartire. In una società avvelenata dalla povertà culturale, economica e relazionale, pensare di rimanere in piccoli spazi, peggio ancora se sicuri, non porta a nulla. Dobbiamo accettare il corpo a corpo con la realtà, partendo dai luoghi del dolore e del dissenso, mettendo insieme le voci, accordandole in un “Noi” che sappia, a partire dalla pluralità, praticare obiettivi comuni.
FONTE: Giuseppe De Marzo, IL MANIFESTO
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