Trattato Ue-Giappone. Jefta, i diritti dovrebbero venire prima del commercio
Un asse Europa-Giappone per mettere nell’angolo Trump, creando un mercato comune con il Giappone e con quei paesi in via di sviluppo, come il Vietnam, che Tokyo ha incluso nel Tpp.
Insieme a grandi esportatori come Australia e Nuova Zelanda. È questa la narrativa con cui il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e il premier giapponese Shinzo Abe hanno firmato ieri a Tokyo l’accordo di libero scambio Ue – Giappone conosciuto come «Jefta». L’Ue conta di ottenere la maggior parte dei guadagni con la riduzione dei costi per le imprese che esportano grazie al livellamento degli standard di produzione e sicurezza di merci e servizi.
Una scelta che la pone al centro delle critiche della coalizione italiana «No Ceta» contro l’analogo trattato tra Europa e Canada, che si è incontrata ieri alla Camera con l’Intergruppo parlamentare omonimo: 42 deputati e senatori di tutti i gruppi che dalla scorsa legislatura appoggiano queste richieste. Le associazioni, tra cui Coldiretti, Cgil, Arci, Fairwatch, Fare Ambiente, Greenpeace, Slow Food, Movimento Consumatori, Federconsumatori, Terra, le Fondazioni Isscon e Univerde notano che, nonostante rispetto al Ceta il linguaggio del Jefta cerchi di accarezzare l’esigenza di maggiore trasparenza e protezione dei diritti del lavoro e dell’ambiente «la riduzione di sovranità delle istituzioni nazionali, di manovra delle imprese piccole e medie nel mercato europeo e internazionale e di attacco ai diritti sociali e ambientali provocati dal Jefta sono identiche».
Dal punto di vista economico, secondo i calcoli della Commissione, il Pil dell’Ue potrebbe aumentare con il Jefta dell’1,88% nello scenario più ottimistico. Dato mai aggiornato dopo la Brexit, che dunque potrebbe essere di molto ridimensionato. L’abbattimento dei dazi, però, causerà una perdita certa di 970 milioni di euro alle casse europee, di oltre due miliardi l’anno con il trattato pienamente in vigore. Il Jefta, come il Ceta, permette il riconoscimento dei prodotti Made in, in autocertificazione, in presenza di appena un 55% di contenuto locale mentre solo 19 prodotti alimentari d’eccellenza italiani, a denominazione geografica protetta, saranno tutelati dalle copie giapponesi e il Parmesan potrà continuare a circolare indisturbato. Preoccupa anche che il Giappone sia il Paese con il maggior numero di colture Ogm approvate sia per alimenti umani sia animali, con un rischio inevitabile di contaminazione considerato il previsto abbattimento dei controlli alle frontiere e il fatto che lì l’etichettatura Ogm sia richiesta solo per 33 categorie di cibi trasformati e 8 materie prime. In Europa, inoltre, la soglia per la presenza accidentale di Ogm negli alimenti è fissata allo 0,9%, mentre in Giappone è al 5%, tra i limiti più alti.
Il Jefta protegge in modo aggirabile un limitato numero di servizi essenziali mentre facilita i prodotti finanziari all’origine della crisi come credit-default swap, asset-backed securities, e derivati, futures. Esso non protegge i flussi di dati personali dei cittadini europei, ma ne facilita l’ottenimento da parte delle banche dati giapponesi. Infine non sarà votato dai Parlamenti nazionali ma solo da quello Ue perché non prevede la clausola Isds, che permette alle imprese di fare causa agli stati qualora qualche legge nazionale danneggi i loro investimenti. Prevede, però, che Ue e Giappone comincino a negoziarla subito dopo la firma di ieri, e nel frattempo istituisce meccanismi di arbitrato tra gli Stati per i singoli temi – agricoltura, servizi, regole, sicurezza alimentare – oltre a 11 comitati tecnici in cui esperti non eletti e non pubblici continueranno a lavorare sul testo firmato per renderlo sempre più conveniente per le imprese.
Ma i diritti, secondo associazioni e parlamentari, non vengono dopo gli affari e l’opposizione al Jefta come al Ceta saranno portate avanti nei confronti degli eletti in Italia e in Europa e del Governo con la stessa forza, nel rispetto di quelle 14 Regioni e 2.400 comuni che in Italia hanno chiesto con atti formali di fermare il Ceta ma anche tutte le sue belle e brutte copie, riaprendo una trattativa in Europa su come si regola il commercio perché sia «libero e giusto» come prescrivono impegni e direttive.
* Fonte: Monica Di Sisto, IL MANIFESTO
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