by Leonardo Clausi | 10 Luglio 2018 9:36
LONDRA. «Polishing a turd» (letteralmente: lucidare una merda). Non nel senso dell’epiteto ingiurioso, ma in quello letterale. È l’ornata espressione utilizzata dal classicista Boris Johnson per definire l’accordo preliminare faticosamente ottenuto da Theresa May sulla linea da tenere nel negoziato sulla Brexit con l’Ue dopo un consiglio dei ministri-fiume tenutosi a Chequers, la residenza estiva cinquecentesca della premier, lo scorso venerdì. Ieri scattavano le sue dimissioni da Ministro degli esteri.
IL FINE DICITORE Johnson è ovviamente acceso capofila, con il ministro dell’ambiente Michael Gove, della fazione pro-Brexit del partito conservatore, entrambi poi confluiti nel gabinetto May per il delicato equilibrio di pesi e misure sul quale la premier è in bilico da mesi. L’uscita di scena di “Boris”, da sempre pretendente al ruolo di leader del partito e del Paese e permanente spina nel fianco del leader di turno, è stata preceduta – ed evidentemente innescata – da quelle del Brexit Secretary in persona, David Davis, e dal suo vice Steve Baker.
DAVIS, prominente alfiere della Gran Bretagna «globale» – cioè libera dai ceppi dell’Ue per involarsi in fiorenti rapporti commerciali col resto del mondo – è stato prontamente sostituito dall’euroscettico ex-ministro dell’edilizia abitativa Dominic Raab, ancora non si sa chi siederà alla scrivania di Johnson al Foreign Office. Ma se la dipartita del primo è per May un problema, quella del secondo una benedizione: lo dimostra la secca e puntuta replica di Downing Street alle dimissioni, con la pubblicazione della notizia ancora prima che il ministro finisse la propria lettera ufficiale indirizzata personalmente a May.
MA CHE ABBIA mollato per carrierismo politico o per ostentare ossequio al mandato referendario (su cui era saltato all’ultimo momento mentre il treno era in corsa: la sua decisione in extremis di sostenere la Brexit ha pesato senz’altro nell’esito finale vista la sua popolarità), la stella di Johnson, ormai considerato un brillante intrattenitore anche nel suo partito, pare opacizzata. A subentrargli come capofila nella difesa dell’orgoglio nazionale è ormai Jacob Rees-Mogg, il Tory che sembra uscito da un cinegiornale Luce e capo degli uscitisti duri. I sondaggi di YouGov lo danno davanti Johnson nel gradimento come futuro leader del partito.
A PROVOCARE l’ennesimo sfarinamento di questo governo May – di minoranza e che si regge grazie agli unionisti nordirlandesi del Dup – è il malcontento sul compromesso strenuamente raggiunto da lei con il governo medesimo, diviso in fazioni pro e contro una Brexit cosiddetta dura: un compromesso che tenta un’impossibile terza via fra lo stare fuori dell’Unione doganale e dal mercato comune europeo ardentemente invocato dalla destra euroscettica e le preoccupazioni del mondo dell’impresa, congelato da mesi in un frustrante limbo che impedisce di pianificare gli investimenti. Dopo ore di febbrili consultazioni nelle sale pannellate che sfrigolavano sotto un sole mediterraneo, May era emersa vittoriosa da un negoziato interno al suo partito cominciato ormai due anni fa, un negoziato su come e cosa negoziare con Bruxelles alla scadenza del marzo prossimo, data in cui i rapporti fra il Paese e l’Ue dovranno aver assunto un nuovo assetto. Ma le possibilità che il suo virtuosismo equilibrista – che ora propone un modo per restare nel mercato unico con merci e prodotti agricoli pur non osservando le altre libertà (di circolazione di persone, servizi e capitali) venga accolto da Bruxelles sono pari a zero.
SE PERDERE due figure di simile cabotaggio nel proprio governo in qualunque altro momento avrebbe facilmente aperto un assalto alla leadership da parte dei brexiteers, May rischia ancora una volta di restare in sella e potrebbe, anzi, uscirne rafforzata. Nonostante l’emorragia di ministri, May continuerà ad attingere dallo stesso serbatoio euroscettico, accontentandosi di quello che trova. Mancano i numeri in parlamento per ribaltarla, e il rischio di elezioni anticipate che rischierebbero di consegnare il Paese al Labour di Corbyn è – prevedibilmente – uno scenario di fronte al quale anche al più ideologico isolazionista tremano i polsi.
AI COMUNI, quest’ennesimo colpo di teatro nelle file della «maggioranza» ha galvanizzato Jeremy Corbyn, solitamente magnanimo con l’avversario quando è in difficoltà in aula. In un attacco devastante alla prima ministra ha anche strappato risate ai suoi, ironizzando sul fatto che, fosse stato per loro, i due ministri avrebbero rassegnato le dimissioni già alla riunione di venerdì nel Buckinghamshire. «Ma di fronte alla prospettiva di una lunga camminata…e – visti i tagli del governo – senza nemmeno un autobus in vista, hanno preferito saggiamente attendere e prendere un passaggio a casa», riferendosi alla perdita istantanea dell’auto blu usata come deterrente verso le defezioni.
FONTE: Leonardo Clausi, IL MANIFESTO[1]
photo: By Ilovetheeu [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], from Wikimedia Commons
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/07/si-dimette-anche-boris-johnson-may-piu-sola-con-i-tory-allo-sbando/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.