HELSINKI. “The long and winding road”, cantavano i Beatles alla vigilia della loro separazione. È lungo e tortuoso il cammino che ha portato Donald Trump fin qui a Helsinki. Ma è qui che voleva arrivare. Il traguardo è raggiunto. La separazione che rischia di consumarsi, è tra l’America e gli alleati europei, offesi e abbandonati in nome di qualcos’altro: Donald Trump forse non ha chiaro che cosa, Vladimir Putin certamente sì. È lo sgretolamento di un sistema di alleanze, di interessi comuni, di regole, che all’Europa hanno garantito stabilità sicurezza e benessere, a Washington un ruolo di guida e leaderhip.
L’incontro di oggi, Trump lo insegue esplicitamente da quando lanciò la sua candidatura nel 2015. In realtà l’attrazione risale ancora più indietro. Dal 2007 al 2013, molto prima di entrare in politica, Trump lascia dietro di sé una scia inquietante di elogi a Putin, di volta in volta definito «un grande uomo che ricostruisce la Russia», «uno che rispetto», «lo vorrei come il mio migliore amico». Un repertorio ingrombrante, viste le relazioni pericolose dell’azienda Trump con la finanza russa ai confini della legalità.
In campagna elettorale, nelle primarie lui continua a proclamarsi putiniano provocando le ire dei patrioti alla John McCain. S’inventa di aver conosciuto personalmente il leader russo in una trasmissione televisiva, poi smentito. Difende Putin dall’accusa di avere eliminato oppositori e giornalisti scomodi, osservando che «anche noi americani abbiamo fatto un bel po’ di omicidi». Con uno strappo rispetto alla tradizione di tante generazioni di politici americani, difende il leader russo contro Barack Obama, tifando apertamente per la parte avversa. Il culmine lo tocca il 27 luglio 2016: esorta i russi a tirar fuori tutto ciò che sanno di compromettente su Hillary Clinton. È un invito all’interferenza di un governo straniero nella campagna elettorale.
Il Trump-presidente è fedele al Trump-candidato. Noncurante dei sospetti che lo circondano, ha continuato a volere questo vertice con Putin, anche se la sua ostinazione eccita le attese sull’indagine del Russiagate. Il percorso dell’ultima tournée europea non potrebbe essere più gradito al Cremlino. Una settimana fa Trump va al vertice della Nato ad aggredire tutti gli alleati, Germania in testa. Se non pagheranno il dovuto, lascia planare una vaga minaccia di ritiro di truppe americane dal continente. A Londra si schiera con il ministro dimissionario Boris Johnson e la hard-Brexit, un divorzio traumatico tra la Gran Bretagna e l’Unione europea. A Theresa May consiglia di far causa a Bruxelles, altro che cercare compromessi. A poche ore dall’atterraggio a Helsinki definisce l’Unione europea come uno degli avversari dell’America.
C’è un simbolismo sconcertante, nel fatto che l’incontro di oggi avvenga in Finlandia, sul Mar Baltico, al confine con la Russia. Negli anni Settanta fu in voga il termine “finlandizzazione”: evocava il pericolo di uno scivolamento dell’Europa occidentale verso una larvata neutralità, su pressione dei movimenti pacifisti e dei partiti filo-sovietici, oltre che per paura dei missili nucleari SS20 schierati da Leonid Breznev.
L’anello debole della Nato a quei tempi era l’Europa. Ci volle una forte intesa fra Jimmy Carter e il duo franco-tedesco Giscard-Schmidt, per evitare il peggio; poi l’arrivo alla Casa Bianca di un falco repubblicano come Ronald Reagan, e il suo asse con la Lady di Ferro Margaret Thatcher. Oggi il rovesciamento delle parti è spettacolare. L’anello debole della Nato è quest’America trumpiana. È il presidente degli Stati Uniti che lavora per “finlandizzare” l’Europa.
Privandola di un solido aggancio, ne agevola la deriva.
Ma Trump ha un disegno chiaro, al di là della sua infatuazione narcisistica per il dialogo tra Superuomini, cioè lui, Putin e Xi Jinping (con l’aggiunta del Superometto Kim Jong-un)? Per adesso chi ha un disegno chiaro è il suo interlocutore. In Siria, Iran e Turchia, Putin è già rientrato a pieno titolo nel Grande Gioco per i destini del Medio Oriente.
In America, anche in ambienti vicinissimi alla Casa Bianca, tutto ciò crea allarme. Il Pentagono e la Cia, Deep State (i poteri forti ai vertici dello Stato), così come il Senato repubblicano, hanno remato contro Trump in modo evidente. Per causa loro l’America di fatto ha peggiorato le sue relazioni con Mosca: vedi l’inasprimento delle sanzioni. Il superinquirente Robert Mueller — nominato dal Dipartimento di Giustizia e cioè da un ramo del governo — a tre giorni dal vertice ha incriminato altri 12 russi per il loro ruolo nella campagna elettorale. Le ultime rivelazioni delFinancial Times contribuiscono al disagio dell’establishment: nel periodo delle sue molteplici bancarotte, abbandonato dalle banche rispettabili, Trump avrebbe ricevuto finanziamenti da oligarchi russi in odore di criminalità. Ciò che spaventa la destra classica, il Pentagono e la Cia, è l’idea che questo presidente sia ricattabile, e che la sua politica estera possa obbedire a un’agenda inconfessabile.
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