Rapporto DIA: «Il business dei clandestini si coniuga all’ecatombe in mare»
Lo avevano detto un paio di giorni fa dalla Dda di Roma, all’indomani dell’ultima operazione contro le mafie capitoline: la diffusione della criminalità organizzata procede di pari passo alla crisi della forme di aggregazione e partecipazione sociale. Da tempo gli studiosi del fenomeno spiegano che la mafia cresce quando non esiste altra forma di regolazione sociale. I mafiosi prosperano laddove si presentano fenomeni che richiedono di essere governati con le spicce.
UNA CONFERMA ULTERIORE arriva dall’ultimo rapporto semestrale della Direzione investigativa antimafia. Nella consueta mescolanza di analisi dello scenario e riepilogo delle principali azioni repressive, la Dia fotografa anche il business dell’immigrazione clandestina. Le mafie italiane e straniere lucrano nel paese del proibizionismo delle migrazioni, in cui è diventato quasi impossibile entrare legalmente e le leggi in materia producono clandestini. Sono coinvolti «maghrebini, soprattutto libici e marocchini, nel trasporto di migranti dalle coste nordafricane verso le coste siciliane».
Ci sono anche italiani: ex contrabbandieri della Sacra corona unita mettono a disposizione i loro natanti e clan nigeriani organizzano lo sfruttamento della prostituzione. «Per le organizzazioni criminali straniere in Italia –si legge nel documento -. il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con tutta la sua scia di reati “satellite”, per le proporzioni raggiunte, e grazie ad uno scacchiere geopolitico in continua evoluzione, è oggi uno dei principali e più remunerativi business criminali». Il testo ricorda anche come il sistema sia complementare all’ecatombe nel Mediterraneo: «Troppe volte il business si coniuga tragicamente con la morte in mare di migranti, anche di tenera età», dicono gli investigatori.
L’ITALIA RESTA PERÒ un paese di emigrazione e di esportazione delle mafie. La Dia conferma che la forma di criminalità organizzata con maggiore ramificazione globale resta la ‘ndrangheta, che costituisce «un modello d’azione che continua ad essere replicato, oltre che in Calabria, anche in altre aree nel nord Italia ed all’estero, con proiezioni operative in Germania, in Svizzera, Spagna, Francia, Olanda e nell’Est Europa, nonché nei continenti americano (con particolare riferimento al Canada) ed australiano».
D’altro canto, la globalizzazione del capitale mafioso si manifesta anche con l’azione delle organizzazioni straniere (cinesi, nigeriane e albanesi soprattutto), che «rappresentano da un lato, la diretta emanazione di più articolate e vaste organizzazioni transnazionali, dall’altro l’espressione autoctona di una presenza sul territorio nazionale». Nelle regioni meridionali i gruppi stranieri si muovono tendenzialmente con l’assenso delle organizzazioni mafiose autoctone: le mafie collaborano ad esempio per organizzare lo sfruttamento del lavoro nero mediante il caporalato.
DEL FENOMENO si è discusso anche alla Camera, in occasione dell’approvazione della legge che istituisce la commissione parlamentare antimafia. Su proposta di Forza Italia si è deciso di «valutare la penetrazione sul territorio nazionale e le modalità operative delle mafie straniere e autoctone». Coda polemica: dal Pd contestano alla relatrice, Nesci del M5S, di aver depotenziato l’organismo rispetto alle indicazioni fornite dalla commissione presieduta da Rosi Bindi alla fine della scorsa legislatura. I grillini negano, rivendicando di aver avocato alla commissione maggiori poteri nel controllo delle liste elettorali. La parola adesso passa al Senato.
* Fonte: Giuliano Santoro, IL MANIFESTO
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