Parlamento Europeo, una riforma sbagliata, ci vuole un copyright 2.0

Parlamento Europeo, una riforma sbagliata, ci vuole un copyright 2.0

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Oggi il Parlamento Europeo vota per la riforma del copyright. Una riforma frutto di tatticismi e mediazioni al ribasso per proteggere un patrimonio comune, la conoscenza nell’era digitale. Due dei suoi articoli più controversi, il numero 11 e il 13, introducono il primo una sorta di tassa per chiunque riproponga online contenuti creativi anche parziali, come un link e la sua descrizione, senza pagare il giusto compenso ai titolari dei diritti; mentre il secondo mira ad applicare un controllo preventivo ai materiali digitali caricati su piattaforme come Youtube, social network o siti collaborativi affinché non violino il copyright.

Per questi motivi le versioni italiana, spagnola, lettone, di Wikipedia, l’enciclopedia libera collaborativa più grande al mondo, hanno deciso una serrata di protesta. Secondo Wikipedia infatti la direttiva in votazione minerebbe i diritti fondamentali dei cittadini europei, come quello di decidere liberamente cosa produrre e pubblicare in rete, consegnando ai privati la decisione finale di cosa sia lecito diffondere online.

Le associazioni di categoria di autori, editori e giornalisti, le società per l’intermediazione dei diritti, Anica, Siae, Confindustria, ritengono invece che la direttiva serva a educare i più giovani al rispetto del lavoro altrui, a porre un argine alla pirateria digitale e impedire agli aggregatori come Google di fare profitti senza remunerare gli autori dei contenuti.

Hanno ragione entrambi. La legge di riforma è scritta male e probabilmente non è adatta alla società della condivisione a cui, volenti o nolenti, apparteniamo.
Tuttavia se la riforma passasse così com’è, non accadrebbe nessuna delle cose terribili che le parti temono: Internet continuerebbe a esistere e Wikipedia pure, mentre l’industria editoriale non risolleverebbe le sue sorti compromesse dalla cultura della gratuità.

Il copyright è una formula giuridica che protegge le idee espresse in una forma narrata e riconoscibile – un libro, un film, un software – e rappresenta il riconoscimento del valore del lavoro intellettuale di chi le realizza. Il diritto d’autore moderno ha sempre avuto come obbiettivo quello di garantire la remunerazione dell’autore e lo sfruttamento economico dell’opera per stampatori, editori, distributori, con il fine di consentirne la più ampia circolazione possibile per l’avanzamento della società. Dal tempo dei dogi ad oggi, le autorità hanno concesso agli autori e agli editori questo monopolio temporaneo sullo sfruttamento delle opere facendosi garanti dei diritti di tutti.

Per questo il diritto d’autore in Italia è automaticamente imposto e senza spese. Purtroppo negli anni il diritto d’autore è diventato un diritto degli editori e degli intermediari, lasciando agli autori solo le briciole, ponendo un freno alla diffusione delle opere, gestendone male i proventi e creando scarsità artificiale per aumentarne il prezzo.
Lo Stato, l’Europa, può tornare a farsi garante di questo rapporto tripartito tra autori, editori e pubblico dei fruitori ormai divenuti prosumer, rigettando la riforma del copyright e facendone una migliore. Come? Con un copyright 2.0, mettendo tutte le opere nel pubblico dominio, liberamente utilizzabili per produrne di nuove, tranne che gli autori, i titolari dei diritti, vogliano altrimenti, ma esplicitandolo, e pagandone la protezione con un piccolo contributo se la ritengono remunerativa. La società tutta ne trarrebbe beneficio, che è da sempre l’obiettivo primario del diritto d’autore.

FONTE: Arturo Di Corinto, IL MANIFESTO



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