by Mauro Ravarino * | 26 Luglio 2018 9:02
Suona la sirena. Quindici minuti di stop per le tute blu di tutti gli stabilimenti Fca, da Melfi a Grugliasco, in segno di lutto per la morte di Sergio Marchionne, ex amministratore delegato di Fiat Chrysler. Il manager si è spento a 66 anni in una clinica di Zurigo dov’era ricoverato da fine giugno, ufficialmente per un’operazione alla spalla. Sabato scorso si è saputo, in contemporanea all’improvviso cambio ai vertici del gruppo (con Mike Manley designato suo successore), che, a causa di complicazioni post operatorie, le sue condizioni si erano aggravate irreversibilmente,
Se ne va così, dietro una cortina di riservatezza ma anche un proliferare di retroscena, il manager italiano più influente degli ultimi decenni, quello della Fiat americana, dell’uscita da Confindustria, dello scontro con una parte del sindacato e dell’estromissione della Fiom dalle fabbriche. Decisionista e abile dirigente, tanto bravo da ravvivare enormemente i conti della galassia Agnelli e ridisegnare il contratto dei metalmeccanici a suo piacere (ma meno a quello degli operai). Oltre a essere stato ad Fca, era, fino al 21 luglio, presidente di Cnh Industrial e di Ferrari.
«È accaduto, purtroppo, quello che temevamo. Sergio, l’uomo e l’amico, se n’è andato. Penso che il miglior modo per onorare la sua memoria sia far tesoro dell’esempio che ci ha lasciato, coltivare quei valori di umanità, responsabilità e apertura mentale di cui è sempre stato il più convinto promotore», ha commentato il presidente del gruppo John Elkann, annunciando il decesso.
Marchionne aveva subito, nella fase successiva all’operazione, un primo arresto cardiaco ed è stato, poi, trasferito nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale.
Qui, ha avuto un secondo arresto cardiaco e le sue condizioni sono precipitate fino alla morte naturale. Massimo riserbo sui funerali: non ci sarà una cerimonia pubblica.
Marchionne era nato a Chieti il 17 giugno del 1952, figlio di un maresciallo dei carabinieri. Proprio in un’iniziativa dell’Arma c’è stata la sua ultima apparizione pubblica, il 26 giugno, con la consegna di una Jeep Wrangler al comando generale. A 14 anni si trasferì con la famiglia in Canada, dove conseguì due lauree, in Filosofia e Legge, e un master in Business administration. Iniziò l’attività da manager in Svizzera e nel 2002 assunse le redini di Sgs, il colosso che opera nei servizi di certificazione; ne risanò i conti. L’anno successivo entrò nel consiglio Fiat, per volontà di Umberto Agnelli e, nel 2004, dopo la sua morte, fu nominato amministratore delegato al posto di Giuseppe Morchio.
Diventò presto il manager dal maglioncino blu scuro e si presentò dicendo che il problema del Lingotto non era il costo del lavoro; tema che iniziò a essere, invece, dirimente nella seconda fase dell’ad, da dieci anni fa ai giorni nostri: il costo della manodopera era diventato eccessivo, i lacci e lacciuoli della burocrazia opprimenti e il potere sindacale strabordante. Più flessibilità e basta conflitto, i nuovi imperativi. E così spuntarono il modello Pomigliano, che affascinò anche a sinistra, il traumatico referendum di Mirafiori, la sfida di Fabbrica Italia – il piano industriale naufragato e derubricato -, la chiusura di Termini Imerese, l’acquisizione della moribonda Chrysler, il nuovo marchio Fca lanciato nel 2014 (il quartier generale trasferito da Torino a Detroit) e il polo del lusso. Sono solo alcuni dei momenti della gestione Marchionne, apprezzata e contestata, e già diventata storia.
Anche il suo successore Mike Manley gli ha voluto rendere omaggio in apertura della conference call con gli analisti finanziari: «È una giornata triste e difficile», ha detto, definendolo «un uomo speciale che ci mancherà». Il secondo trimestre 2018 è stato difficile per Fca, chiuso con un utile netto di 754 milioni, in diminuzione del 35% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (-26% a parità di cambi). Lo ha confermato Manley: «Marchionne aveva detto che sarebbe stato un trimestre difficile ed è stato così». L’ad ha rassicurato gli analisti dicendo che Fca può continuare «a essere una società solida e indipendente». Però, «la porta resta aperta», si possono «avviare collaborazioni sulle componenti».
Azzerato, inoltre, il debito, come voleva l’ex ad. L’azienda «riporta per la prima volta una liquidità netta industriale, a quota 0,5 miliardi di euro». Pechino è il miraggio: «La sfida più grande, molto importante per noi è il riposizionamento del marchio Jeep in Cina».
Per quanto riguarda il 2018, il Lingotto conferma l’obiettivo di un utile netto adjusted di 5 miliardi. Taglia, invece, le stime di ricavi netti tra 115 e 118 miliardi di euro (la stima era di 125 miliardi di euro). Le previsioni al ribasso sul prossimo semestre e il calo dell’utile trimestrale hanno provocato un crollo in Borsa del titolo.
Il titolo Fca ha perso il 15,5% a Piazza Affari, mentre Exor ha chiuso a -3,49% e la controllata Ferrari a -2,19%. Male anche a Wall Street per la galassia Agnelli.
È stato, dunque, un esordio assai difficile per l’ad Manley.
* Fonte: Mauro Ravarino, IL MANIFESTO[1]
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