Le imprese contro gli Stati
Quando gli arbitrati prevalgono sulle leggi
La Vattenfall è una delle più importanti aziende energetiche del Vecchio Continente: posseduta al 100% dallo Stato svedese, 20 mila occupati, una presenza consolidata in vari mercati, dalla Germania al Regno Unito passando per la Danimarca, e investimenti corposi nel nucleare e nelle energie alternative, soprattutto eolico. La sede legale è a Solna, cittadina di quasi 70 mila abitanti nelle immediate vicinanze di Stoccolma. La nazionalità dell’impresa non è secondaria, come abbiamo potuto capire per la vicenda Rockhopper: la Svezia è Paese fondatore e membro dell’Energy Charter Treaty, esattamente come la Germania. I suoi investimenti quindi rientrano a pieno titolo nelle regolamentazioni e nei dispositivi inseriti nel Trattato, tra cui la presenza di un ISDS.
La Vattenfall si guadagnò diversi anni fa l’onore delle cronache per aver citato in giudizio davanti a un arbitrato il governo della cancelliera Angela Merkel, colpevole, secondo le motivazioni degli avvocati dell’impresa, di aver modificato l’ambiente di investimento a svantaggio degli investitori approvando la Energiewende, la legge sulla transizione energetica approvata nel 2011 immediatamente dopo il disastro di Fukushima e che tende a raggiungere due obiettivi: l’uscita graduale del Paese dai combustibili fossili verso una “low carbon society” e la dismissione di tutti gli impianti nucleari entro il 2022, con il divieto di costruirne di nuovi. Un cambio inaspettato dell’ambiente di investimento, dato che lo stesso governo Merkel aveva assicurato pochi anni prima un ampliamento delle concessioni sul nucleare, ma che fu preso sulla base delle crescenti preoccupazioni dell’opinione pubblica sulla sicurezza degli impianti.
La Vattenfall, assieme ad altre aziende energetiche come la E.on e la RWE, decisero di sfruttare le opportunità offerte dall’ECT per tutelare i propri interessi, e decisero di deferire il governo tedesco alla corte arbitrale dell’accordo, con una richiesta di compensazione multimiliardiaria (Der Spiegel, 2011). Il processo è ancora in corso.
Un caso del tutto simile, però, coinvolse sempre l’impresa svedese e il governo tedesco, ma le conclusioni risulteranno contraddittorie.
Siamo nei pressi di Amburgo, a Moorburg, piccolo sobborgo che, sebbene bagnato dalle acque del fiume Elba, risulta ormai profondamente modificato dallo sviluppo industriale. L’Elba è comunque una risorsa importante: un corso d’acqua considerato dall’Unione Europea come zona di interesse naturalistico della rete Natura 2000, istituita dalla direttiva Habitat per applicare le politiche di protezione della biodiversità promosse in Europa.
È proprio sulle sue rive che vede la luce nel 2004 il progetto “Moorburg power plant”, la costruzione di un impianto energetico alimentato a carbone con una capacità produttiva combinata di oltre 1.7 GW. Un investimento che è riuscito a toccare i due miliardi di euro dai 700 milioni preventivati, che per poter essere realizzato è dovuto essere sottoposto a studi e valutazioni di impatto ambientale per poter ricevere le necessarie autorizzazioni, in particolare quella per la temperatura delle acque di scarico usate per il raffreddamento dell’impianto: una captazione di 65 metri cubi al secondo con una reimmissione nel fiume delle acque a una temperatura di 30 °C. Le prime autorizzazioni concesse furono modificate successivamente in senso restrittivo. Dopo un’infuocata campagna elettorale per la municipalità di Amburgo, che vedeva l’impianto a carbone tra le principali preoccupazioni dei cittadini e degli elettori, il nuovo governo rosso-verde decise di rendere più restrittive le concessioni, in accordo con le normative europee. L’oggetto del contendere riguardava proprio l’acqua captata dal fiume, la cui quantità sarebbe dovuta dipendere dalla portata del momento, mentre la temperatura delle acque di scarico sarebbe dovuta essere abbassata per non condizionare il contenuto di ossigeno. Il tutto condito da un piano di monitoraggio sulle specie ittiche e sulle conseguenze dell’attività di produzione energetica.
Una richiesta che, secondo la Vattenfall, avrebbe rischiato di far chiudere l’impianto «in estate per giorni o intere settimane» e le restrizioni avrebbero tagliato la produzione «del 45%». Queste e altre motivazioni furono sistematizzate e presentate il 20 marzo 2009 all’ICSID (Vattenfall, 2009), nel tentativo di rimettere in discussione quella decisione o, al limite, di ricevere una compensazione miliardaria.
Quella causa si risolse due anni dopo, nel marzo del 2011 (Vattenfall, 2011), con un patteggiamento: la municipalità di Amburgo avrebbe accostentito a un indebolimento della stringenza delle normative, a fronte di un decadimento della procedura arbitrale. Un’equa ricomposizione delle responsabilità, al di là del pagamento delle spese legali che la parte pubblica ha dovuto comunque sostenere? La risposta arriva qualche hanno dopo, ma non ha cittadinanza tedesca: sarà la Corte di Giustizia Europea con sede in Lussemburgo, chiamata in causa dalla Commissione Europea, a mettere la parola fine al caso o, forse, bisognerebbe dire a riaprire le danze dello scontro tra normative pubbliche e sentenze degli arbitrati privati. Il 26 aprile 2017 la sentenza risulta chiara e inequivocabile: il dispositivo finale sottolinea come «non avendo eseguito, all’atto dell’autorizzazione alla costruzione della centrale a carbone di Moorburg, vicino ad Amburgo (Germania), una valutazione corretta e completa dell’incidenza, la Repubblica Federale di Germania è venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza dell’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche» (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 2017).
Insomma, per evitare una richiesta di compensazione davanti a un arbitrato privato per presunte violazioni dei diritti dell’investitore, il governo tedesco e la municipalità di Amburgo hanno indebolito le normative ambientali contravvenendo a quelle europee. Un vero caso di incompatibilità giuridica.
L’impatto potenziale di questo tipo di meccanismi sulla tutela ambientale e sociale è sempre stato sottostimato se non negato, soprattutto dal governo italiano. Ma i precedenti che hanno coinvolto l’Italia, evidentemente tenuti sotto traccia, avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento più prudente. Mentre il primo accordo di libero scambio di “seconda generazione”, quello tra Unione europea e Corea del Sud cominciava a vedere la luce, all’ICSID veniva presentata una denuncia da parte di un’impresa italiana, la toscana Foresti, coinvolta nell’estrazione mineraria, contro il governo del Sud Africa (Italaw, 2009).
Era il 2009 e pochi anni prima, nel 2004, entrò in vigore una legge post-apartheid, la Mineral and Petroleum Resources Development Act (MPRDA), che prevedeva una serie di misure per uscire dalla logica segregazionista che aveva caratterizzato il Paese nei decenni precedenti e che ancora mostrava un certo radicamento nella società. Una norma pienamente inserita nella politica di apertura e di rispetto delle libertà civili che aveva caratterizzato la presidenza di Nelson Mandela.
Tra le varie direttive, quella legge impattava direttamente sui diritti di proprietà delle aziende estrattive, garantendo per legge un minimo del 26% di azioni in mano alla comunità nera. Secondo le argomentazioni dell’azienda italiana quella legge poteva essere interpretata come un esproprio illegittimo e per questo, sulla base di alcuni accordi bilaterali sugli investimenti (il Belgio-Lussemburgo-Sud Africa e il Sud Africa-Italia), per questo furono chiesti 350 milioni di dollari di compensazione economica. La procedura durò quasi due anni, alla fine dei quali si raggiunse un accordo tra le parti: l’azienda avrebbe ritirato la causa, accollandosi parte dei costi legali (circa 400 mila euro per contribuire alle spese) anche se alla fine al Sud Africa furono lasciati quasi cinque milioni di euro in costi legali non rimborsati (Provost Claire, Kennard, 2015). Ma la gravità del tutto non sta (tanto) nello sbilanciamento delle spese, ma nel risultato di quella pressione che potrebbe essere definita un vero e proprio “chilling effect”: la percentuale di azioni rese obbligatorie per la comunità nera scese dal 26% al 5%, indebolendo enormemente la legge approvata dal Parlamento sudafricano (DTI, 2010).
Un risultato sottolineato persino dallo studio legale sudafricano che ha sostenuto la causa dell’azienda contro il governo: «nessun’altra compagnia mineraria», si legge in un comunicato stampa dei legali, «è stata trattata così generosamente dall’approvazione dell’MPRDA» (Webber Wentzel, 2010).
L’insostenibilità degli arbitrati e delle regole a cui si riferiscono non può più essere messa in discussione, e la proposta dell’Unione Europea per una loro riforma è oramai un dato di realtà.
Dall’ISDS all’ICS: non solo questione di acronimi
L’occasione c’è stata più di un anno fa, quando la Commissione Europea, in seguito alle forti pressioni della società civile sul rischio di un indebolimento dell’abilità di governare da parte degli organismi democraticamente eletti a causa dell’azione legale degli arbitrati privati, decise di ripensare profondamente l’intero dispositivo. Dal suo Concept Paper pubblicato il 5 maggio del 2015, in piena trattativa TTIP con gli Stati Uniti, e chiamato Investment in TTIP – the path beyond (European Commission, 2015), l’Europa prova a rivedere gli elementi più critici dell’arbitrato ISDS proponendo una Corte Internazionale sugli Investimenti (ICS) per cercare un maggiore consenso tra una società civile, quella europea, particolarmente mobilitata per un commercio più equo.
I risultati saranno in verità molto parziali, nonostante la retorica di Bruxelles. «Il nuovo meccanismo sarà pubblico e non si fonderà su tribunali ad hoc», sottolinea la Commissione in un comunicato stampa diffuso nell’ottobre del 2016. «Siederanno nel tribunale giudici indipendenti e di carriera, nominati dall’UE e dal Canada, chiamati al rispetto dei più rigorosi principi deontologici stabiliti da uno stringente codice di condotta». «Le procedure», continua la dichiarazione, «saranno trasparenti, grazie tra l’altro alle udienze pubbliche e alla pubblicazione dei documenti presentati durante lo svolgimento delle cause. Le disposizioni in materia di investimenti restringono il numero dei casi in cui un investitore può contestare uno Stato e non offrono alcuna protezione alle società di comodo o fittizie: hanno accesso alla tutela solo le imprese con un effettivo legame economico con le economie del Canada o dell’Unione Europea». «In nessun caso», conclude la Commissione, «un soggetto pubblico potrà essere costretto a modificare un testo di legge o condannato al pagamento di danni punitivi» (European Commission, 2016 a).
Elementi innovativi? Sì, ma che nascondono comunque rischi per l’attività normativa dei governi. Un’analisi trasversale portata avanti dal Transnational Institute alcuni mesi prima della dichiarazione pubblica dell’Unione Europea, ha dimostrato che, nonostante i cambiamenti, la Corte Internazionale sugli Investimenti rischia di avere impatti pesanti sull’ambiente (TNI, 2016).
Un “test”, che ha analizzato i casi più famosi di arbitrato (come quello della Philip Morris contro il governo australiano sul packaging delle sigarette e la lotta contro il fumo, o della Lone Pine Resources contro il Canada per la concessione delle autorizzazioni estrattive in Quebec) e che ha dimostrato ancora troppi nodi critici, come l’inadeguata specificazione e la possibile interpretazione di concetti come quello di azione «necessaria” o «non discriminatoria», o quello di «aspettative legittime» di profitto, la cui chiara definizione in una causa legale può fare la differenza.
E anche il profilo del giudici non varierebbe rispetto a quello del più classico ISDS: sarebbero comunque privati senza un’indipendenza chiaramente dimostrata, non soddisfacendo le norme internazionali sul settore. La Corte, peraltro, più che essere un’assise realmente internazionale assomiglierebbe più a una Corte permanente di arbitrato che non risponde ai requisiti minimi proposti dalla Magna Charta dei giudici, approvata nel novembre del 2010 dal Comitato consultivo dei giudici europei nella quale sono stati fissati i principi fondamentali per assicurare l’indipendenza della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato (German Magistrate Association, 2016).
L’ICS fu una sorta di proposta tattica per cercare di indebolire il crescente fronte contrario ad accordi così ampi, ma diventò comunque un’area di scontro al calor bianco tra la società civile internazionale e la Commissione Europea e i governi che, sostenendo l’opportunità dell’approvazione del TTIP prima e del CETA (l’accordo con il Canada) poi, hanno puntato sulla riforma dell’ISDS come una dimostrazione dell’accoglimento delle istanze dei movimenti.
photo: By Dergenaue [CC BY-SA 2.0 de (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/de/deed.en)], via Wikimedia Commons
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