Il decreto “dignità” di Di Maio e l’autogol complottista

by Massimo Giannini * | 15 Luglio 2018 9:35

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Ci mancava il “complotto dei ragionieri”, nello Stupidario italiano di questi tempi confusi. Ci mancava la misteriosa “ manina” che nottetempo, all’insaputa di Di Maio, manipola il suo decreto dignità, il “testo sacro” sul quale M5S ripone le sue residue speranze di ricostruirsi un’immagine e ridimensionare quella ingombrante e onnipresente di Salvini. E invece il vicepremier e super- ministro ci ha regalato anche questa perla. Per giustificare un clamoroso testacoda del provvedimento che dovrebbe segnare la “Waterloo del precariato”, e che invece trasformerà nei prossimi dieci anni 80 mila precari in altrettanti disoccupati, Di Maio non trova di meglio che gridare al complotto.

Contro la cifra che “non esiste”. Contro i tecnici del Tesoro che l’hanno scritta nella Relazione tecnica, senza avvisarlo. Contro le solite “lobby di tutti i tipi”, che lavorano sottobanco per far saltare il decreto. Contro le “vipere” che avvelenano a morsi il nuovo che avanza, e che invece avrebbe bisogno di “persone di fiducia”. Da quel che capiamo, non di “servitori dello Stato”, ma di “servi del governo”. Con questa sortita Di Maio si infligge un doppio autogol. C’è un autogol istituzionale: si lacerano i già logori rapporti con la Ragioneria (svilita a una consorteria di imbroglioni) e con il ministro Tria (impegnato a tamponare i danni delle parole sparse al vento dalle allegre comari lega-stellate). C’è un autogol mediatico: quello che doveva essere il decreto della riscossa, rischia di diventare il decreto della disfatta.
Una vera Waterloo, ma per il Movimento, non per il precariato. Un incidente serio che si poteva evitare, se il capo grillino avesse concertato quel testo anche con le imprese. Ma non l’ha fatto, e ora si deve assumere la responsabilità dell’errore, invece di scaricarlo sulle oscure forze del Male. Al di là del merito, è soprattutto questo che inquieta: il metodo. La sistematica ricerca di un Capro Espiatorio che nasconda l’inettitudine o l’incapacità di chi amministra la cosa pubblica.
Le teorie del complotto non sono nuove, in un Paese sospeso tra la tragedia (le “stragi di Stato”) e la farsa (la Cia “ mandante” di Mani Pulite). I fantasmi cospirazionisti riempiono un vuoto politico-culturale. Quello delle opposizioni che non hanno idee né consensi per “abbattere il sistema”, e quello dei governi che non hanno classi dirigenti né competenze per farlo funzionare. Per questo i Cinque Stelle sono i maestri indiscussi del genere. Dalla «messinscena americana dello sbarco sulla luna» rivelato da Carlo Sibilia, all’11 settembre «fatto in casa» rivelato da Paolo Bernini. Dagli Usa e la Ue che secondo Manlio Di Stefano «appoggiano l’Isis», a Goldman Sachs e JPMorgan che secondo Monia Benini « finanziano i matrimoni gay». Fino ad arrivare a un classico dell’inesauribile letteratura complottarda: la sindaca Raggi, già sommersa dai rifiuti dopo appena un anno di accidia al Campidoglio, che in un’intervista a Mario Calabresi svela al mondo la famosa “congiura dei frigoriferi”, misteriosamente gettati dai romani « vicino ai cassonetti».
C’è una ragione, se il complottismo turba soprattutto i sonni pentastellati. È non solo una ragione statistica: come dimostra un’indagine Itanes su un campione di 3.050 individui, addirittura il 56,5% degli elettori M5S ritiene che «una parte rilevante delle nostre vite è controllata da complotti dei poteri forti». È soprattutto una ragione politica: come scrive Tom Nichols (“La conoscenza e i suoi nemici”) il populismo digitale che ha alimentato “ il culto dell’ignoranza” produce naturalmente teorie del complotto. Si manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione. Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova.
Se non governi, è perché non ti “ fanno” governare. Se governi, è perché non ti “ lasciano” governare. Il complotto è sempre una fuga: la colpa è sempre di un misterioso e inafferrabile “ qualcun altro”, perché “ altrimenti non ci resta che accusare dio, il puro caso, o noi stessi”. È esattamente quello che fa Di Maio: per non accusare se stesso di aver scritto un decreto sbagliato nelle soluzioni (anche se nobile nelle intenzioni) inventa un colpevole qualsiasi, esterno ed astratto. Gli uffici, i tecnici, le lobby, i poteri forti. Tutti “nemici del cambiamento”, pronti a sabotare la “gioiosa macchina da deficit” gialloverde. È una nuova forma di democrazia. È un vero e proprio “metodo di governo”. Ed è solo un assaggio di quello che vedremo nei prossimi mesi, quando la posta in gioco saranno la legge di stabilità e poi le elezioni europee. «Mi faccio una risata», dice Di Maio. Speriamo che quella risata non ci seppellirà.

* Fonte: Massimo Giannini, LA REPUBBLICA[1]

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  1. LA REPUBBLICA: http://www.repubblica.it/

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