by Alberto Zoratti, dal 15° Rapporto sui diritti globali | 23 Luglio 2018 7:40
Clima: gli americani escono dall’Accordo di Parigi
Lo aveva minacciato, alla fine lo ha fatto, anticipandolo al mondo intero con un banale tweet: «Nei prossimi giorni annuncerò la mia decisione sull’Accordo di Parigi» (Trump, 2017).
Proprio nel momento in cui i governi del G7 si riunivano a Taormina, in attesa del summit dei ministri dell’Ambiente a Bologna previsto per metà giugno, gli Stati Uniti annunciano la loro volontà di lasciare gli ormeggi. E le reazioni non si sono fatte attendere.
Italia, Francia e Germania, in un documento congiunto, hanno ribadito la volontà di continuare la strada tracciata nel 2015 alla COP21 di Parigi: «Consideriamo il momentum creatosi a Parigi come irreversibile», si legge nella nota ufficiale diffusa alla stampa, «e crediamo fermamente che l’Accordo di Parigi non possa essere rinegoziato, dal momento che è uno strumento vitale per il nostro pianeta, le nostre società ed economie» (Gentiloni, Macron, Merkel, 2017).
Persino alcune grandi imprese decisero di scendere in campo, come Jeff Immelt, amministratore delegato della General Electrics su Twitter: «Il cambiamento climatico è reale. Ora l’industria deve guidare e non dipendere dai governi» (Immelt, 2017) o la stessa Exxon che, pochi mesi prima, in una lettera all’Amministrazione americana chiedeva di continuare a sostenere l’accordo.
Ma l’inerzia generata dall’innovazione tecnologica, ormai ampiamente orientata alla sostenibilità, alle energie alternative e al basso impatto ambientale non si può fermare: lo sottolinea bene il premio Nobel Joseph Stiglitz, spiegando come «fortunatamente, gran parte degli Stati Uniti, comprese le regioni più dinamiche economicamente, hanno mostrato che Trump è, se non irrilevante, molto meno rilevante di quello che vorrebbe credere. Un gran numero di Stati e di imprese hanno annunciato che continueranno a mantenere i loro impegni [di lotta al cambiamento climatico, ndr]» (Stiglitz, 2017).
Ma questa “irrilevanza” non è questione solo interna al Nuovo Continente: il Commissario all’Ambiente dell’Unione Europea, Miguel Arias Cañete, ha dichiarato al quotidiano britannico “The Guardian”: «L’Unione Europea e la Cina stanno unendo le forze per andare avanti nell’implementazione dell’Accordo di Parigi e accelerare la transizione globale all’energia pulita» (Boffey, Neslen, 2017).
Tra le varie questioni sul tavolo, il finanziamento da parte europea per dieci milioni di euro per sostenere la nascita di un mercato delle emissioni di carbonio in Cina; ma, al di là di questo, lo spazio liberato dal passo indietro statunitense per la leadership globale di lotta al cambiamento climatico potrebbe favorire altri grandi player mondiali, e il primo pensiero non può andare che alla Cina.
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO IN CIFRE
Il mutamento del clima è già realtà, e quello che lo rende insostenibile e sostanzialmente diverso dalle oscillazioni naturali che sono avvenute negli anni è la sua velocità, che impedisce agli ambienti naturali e agli organismi viventi di adattarsi. Dal 1880 a oggi la temperatura media globale è aumentata di 0,8 °C rispetto a quella dell’era preindustriale e dal 2001 si hanno avute sedici delle diciassette annate più calde mai registrate, la copertura minima artica (durante l’estate) è diminuita del 13,3% nell’ultimo decennio, si sono persi oltre 286 miliardi di tonnellate all’anno di ghiaccio nei ghiacciai terrestri, il livello del mare si è innalzato di 178 millimetri negli ultimi cento anni. La concentrazione di biossido di carbonio ha superato le 406 parti per milione ed è il livello più alto mai registrato negli ultimi 650 mila anni (NASA, 2017).
La nuova “fossil revolution”
Il passo indietro sul clima conferma i nuovi obiettivi energetici della nuova presidenza americana. Uno dei primi passi dello spoil system, cioè della sostituzione dei posti di dirigenza con responsabili o direttori più in linea con i vincitori delle elezioni, fu la nomina a direttore dell’Environmental Protection Agency (EPA), l’Agenzia federale per la protezione dell’Ambiente, di Scott Pruitt, già procuratore generale in Oklahoma e conosciuto come un negazionista climatico. Già nel 2011 fece scalpore la sua lettera inviata proprio ai vertici dell’EPA, denunciando una sovrastima nei calcoli dell’inquinamento da estrazione di gas naturale nello Stato. Una lettera, poi si scoprì, scritta direttamente dallo studio legale della Devon Energy, una delle imprese interessate, e faceva parte di una strategia più ampia che vedeva alcuni esponenti repubblicani e diverse grandi imprese estrattive dell’Oil&Gas coordinarsi per indebolire la politica ambientale dell’allora presidente Obama (Lipton, 2014).
D’altra parte, il nuovo piano energetico focalizza su combustibili fossili, indipendenza energetica, rilancio dell’economia a partire dall’estrazione di combustibili a basso costo. «Per troppo tempo», si legge nel testo pubblicato dalla Casa Bianca, «siamo stati rallentati da pesanti regolamentazioni dell’industria dell’energia. Il Presidente Trump è impegnato nell’eliminare politiche nocive e non necessarie, come il Climate Action Plan o la regolamentazione sulle acque. Togliere queste restrizioni», sottolinea la nota, «aiuterà enormemente i lavoratori americani, aumentando i salari di più di 30 miliardi di dollari per i prossimi sette anni» (The White House, 2017). D’altro canto, i 50 mila miliardi di dollari di riserve di gas naturale, petrolio e sabbie bituminose sono viste come la base per l’indipendenza energetica e per il prossimo rinascimento americano. Con buona pace del clima globale e dei diritti delle comunità indigene.
Ne sanno qualcosa i Sioux del Dakota, che nella riserva di Standing Rock sono diventati il simbolo della lotta contro uno sviluppo inquinante e insostenibile, opponendosi alla costruzione del DAPL, Dakota Access Pipeline, il lungo oleodotto che connetterebbe il sito estrattivo di Bakken nel Northwest Dakota con un impianto in Illinois e di lì verso le raffinerie del Golfo del Messico, tagliando in due la riserva dei nativi e il partimonio naturale che la caratterizza.
La lotta dei nativi americani esplose nel 2016, quando riuscirono a bloccare i lavori e l’avanzamento della costruzione dell’oleodotto. Ma nel febbraio 2017 l’intervento delle forze di polizia sgomberò l’accampamento di migliaia di persone che presidiava il territorio (Greenreport, 2017). La mobilitazione, tuttavia, non si placa, considerate soprattutto le intenzioni di Donald Trump di procedere con l’infrastruttura costi quello che costi.
Combustibili fossili o no? Un dilemma non solo USA
Ma se l’elezione di Donald Trump e la sua opposizione all’Accordo di Parigi è riuscito a far convergere governi su posizioni fino a oggi impensabili, la questione di una vera transizione a un modello energetico più sostenibile riguarda tutti, in primis l’Europa e non secondariamente l’Italia.
Il colpo a effetto è stato del presidente francese Emmanuel Macron, che in un appello dall’Eliseo rivolto in inglese ai ricercatori e agli scienziati americani, ha offerto la possibilità di emigrare in Francia, per lavorare in tutta libertà nella comunità scientifica transalpina, lontano dai diktat e dalle epurazioni di Donald Trump. Ma più a livello istituzionale, al disimpegno statunitense si contrappone la risposta corale di molti altri Paesi. E non solo al G7 ambiente di Bologna, dove i membri del consesso, a parte gli USA, hanno ribadito un forte impegno nella lotta ai cambiamenti climatici e nell’applicazione dell’accordo di Parigi (Presidenza Italiana del G7, 2017), ma anche poche settimane dopo, al G20 di Amburgo, dove oltre a sottolineare l’irreversibilità del piano delle Nazioni Unite veniva lanciato il “G20 Hamburg Climate and Energy Action Plan for Growth”, dove le varie aspirazioni e aspettative di applicare le decisioni della COP21 trovano concretezza sulle modalità di adattamento, di mitigazione delle emissioni di gas climalteranti entro il 2050, di gestione del rischio e di allineamento delle risorse finanziarie con le attese espresse a Parigi (European Commission, 2017 c).
Una posizione ulteriormente ribadita a metà luglio a Tallin durante il vertice dei ministri europei dell’Ambiente, con l’obiettivo di trovare una posizione comune (e soprattutto una strategia comune) per raggiungere in modo coordinato gli obiettivi dei contributi nazionali (INDCs) formalizzati al segretariato dell’UNFCCC (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) e previsto dal Paris Agreement. Un accordo che, con il passare del tempo, acquisisce sempre più autorevolezza e condivisione: nel luglio del 2017 saranno 195 i firmatari e 156 i governi che lo hanno già ratificato rendendolo di fatto realtà, al di là delle posizioni degli Stati Uniti e di pochi altri Paesi, come il Nicaragua (United Nations, 2017).
Il mix energetico: la situazione europea e quella italiana
Secondo dati dell’Unione Europea (l’ultima edizione del pocketbook è del 2016, e si riferisce a statistiche 2014), i 28 Paesi dell’UE cumulativamente contribuiscono per un 5,6% della produzione energetica mondiale, con 775 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtoe) rispetto alle 13,8 miliardi di tonnellate a livello mondiale (European Union, 2016). Di queste, il 31,2% erano riferibili a petrolio e derivati, il 28,8% da altri combustibili solidi (come carbone e lignite), il 21,2% da gas naturale, il 13,7% da fonti rinnovabili e il 4,8% da centrali nucleari. Una classifica che, più o meno, si ripete anche per l’Italia, sebbene con una variazione sostanziale sull’utilizzo di combustibili fossili, con al primo posto l’energia derivata dal consumo di petrolio e derivati, al secondo posto il gas naturale, al terzo con energia prodotta da fonti rinnovabili e solo al quarto posto il carbone con quasi 14 Mtoe consumati nel 2014.
Sono ancora i trasporti, seguiti dal residenziale e dall’industria, a fare la parte del leone del consumo energetico del nostro Paese, assommando al 74% circa di tutto il mix.
Leggere questi dati dal punto di vista dell’importazione di combustibili e di energia e dell’emissione di gas serra consente di capire ancora meglio le tendenze italiane e gli ambiti sui cui il governo potrebbe (dovrebbe?) intervenire. Le emissioni di CO2 sono comunque calate, rispetto alla baseline: dalle quasi 453 milioni di tonnellate del 1995 si è passati alle 352 del 2014; mentre la produzione procapite di biossido di carbonio (Kg CO2/cap) nel corso degli anni è diminuita sensibilmente: dalle quasi otto tonnellate del 1995 si è arrivati a 5,8 tonnellate nel 2014, dopo aver toccato un picco di 8,6 nel 2005 (anno in cui è entrato in vigore il primo periodo di impegni del Protocollo di Kyoto, durato fino al 2012), una tendenza che ha fatto il paio con la costante diminuzione dell’intensità energetica delle produzioni, che riguarda la quantità di CO2 emessa per ogni punto di Prodotto Interno Lordo e che indica quanto i nostri processi produttivi sono low-carbon.
La strategia energetica italiana
Proprio per affrontare in maniera organica un tema così ampio e articolato, una collaborazione tra il ministero dell’Ambiente e il ministero per lo Sviluppo Economico italiani ha portato a una rielaborazione e ridefinizione della Strategia Energetica Nazionale (SEN), già presentata nel 2013 sotto gli auspici dell’allora ministro Corrado Clini dopo il Summit delle Nazioni Unite di Rio+20, svoltosi nell’estate del 2012 in Brasile.
Il documento, reso accessibile online tra giugno e luglio, prevede un investimento sulle rinnovabili e sul gas, come del resto già ampiamente sottolineato nella versione precedente, confermando l’obiettivo di rendere l’Italia un vero e proprio “hub europeo” per il gas in arrivo da altri Paesi, approfittando della sua particolare localizzazione geografica nel Mediterraneo.
Un modo per superare entro un decennio la dipendenza dal carbone, che verrà via via dismesso per lasciare il posto a tecnologie più pulite e meno impattanti (non solo a livello ambientale, ma anche di salute pubblica).
La proposta ha l’obiettivo di arrivare a toccare il 27% del consumo lordo finale da rinnovabili entro il 2030 che, suddiviso e precisato per le differenti componenti, significherebbe 48%-50% per le rinnovabili elettriche, 28-30% per quelle termiche e 17-19% per il settore trasporti.
Ma in questo quadro, sottolineano i due ministri nell’introduzione al documento, «il gas dovrà svolgere un ruolo essenziale per la transizione, nella generazione elettrica, nella fornitura di servizi al mercato elettrico e negli altri usi, tra cui il GNL nei trasporti pesanti e marittimi. Perdurando un contesto geopolitico complesso, per salvaguardare la sicurezza degli approvvigionamenti saranno quindi messi in campo interventi per diversificare le rotte di provenienza, ed eliminare il gap di costo con gli altri Paesi europei» (Calenda, Galletti, 2017).
«Ovviamente c’è una notevole differenza tra chiudere l’ultima centrale a carbone nel 2025 o nel 2030», ha dichiarato Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia. Inoltre, «Calenda dice che uscire dal carbone costerà tre miliardi di euro. Questa stima include i risparmi che il nostro Paese avrebbe dal mancato import di carbone, i benefici sanitari, climatici ed economici che verranno dall’azzeramento delle emissioni? L’Agenzia Europea per l’Ambiente, pochi anni fa, stimava in oltre 500 milioni l’anno gli impatti del solo impianto di Brindisi: qualcosa ci dice che all’Italia converrebbe uscire dal carbone anche dal punto di vista economico» (Boraschi, 2017).
«È un fatto positivo che, finalmente, l’eliminazione del carbone sia entrata nell’agenda politica in modo concreto: si tratta di un successo della nostra campagna a tutela del clima e della salute, visto che il carbone è il combustibile fossile a più alta emissione di CO2, nonché della pressione dei cittadini e delle categorie economiche colpite dai suo terribili effetti», ha sottolineato invece Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia, dopo la prima presentazione degli obiettivi della SEN 2017. «Francamente abbiamo molti dubbi […] sulle compensazioni per le centrali i cui costi non sono stati ancora ammortizzati occorre mettere molti paletti: se così dovesse essere, vanno ancorate a nuovi investimenti nelle energie rinnovabili e nell’economia decarbonizzata, oltre che alla salvaguardia dei lavoratori coinvolti dalla transizione. Per il resto […] leggiamo molta timidezza sulle energie rinnovabili, per le quali l’obiettivo del 27% è il minimo sindacale per gli obiettivi europei, senza investimenti coraggiosi nella grossa potenzialità che ci deriva soprattutto dalla nostra esposizione solare» (Midulla, 2017).
Grande accento sul gas, uscita dal carbone, timidezza sulle energie rinnovabili: una proposta più che migliorabile, ma che viene ridefinita sulla base delle indicazioni provenienti dall’Unione, come il Clean Energy Package, presentato a fine 2016 a Bruxelles dalla Commissione Europea in conseguenza del “2030 Climate and Energy Policy Framework”, la strategia di contrasto al cambiamento climatico parte sostanziale degli impegni europei post-Parigi 2015.
OVERSHOOT DAY
Secondo il Global Footprint Network, l’organizzazione di ricerca internazionale che ha dato avvio al metodo di misura dell’Impronta Ecologica (in inglese Ecological Foorprint) per il calcolo del consumo di risorse, il 2 agosto del 2017 è il giorno in cui l’umanità ha usato l’intero budget annuale di risorse naturali. Il 60% di questo budget è rappresentato dalla richiesta di natura per l’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica.
Il Giorno del Sovrasfruttamento delle risorse della Terra (in inglese Earth Overshoot Day) rappresenta la data in cui la richiesta di risorse naturali dell’umanità supera la quantità di risorse che la Terra è in grado di generare nello stesso anno. La data dell’Earth Overshoot Day è caduta sempre prima nel calendario: dalla fine di settembre del 1997 al 2 agosto del 2017, mai così presto da quando il mondo è andato per la prima volta in sovrasfruttamento nei primi anni Settanta del secolo scorso. In altre parole, l’umanità sta usando la natura a un ritmo 1,7 volte superiore rispetto alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi. È come se ci servissero 1,7 pianeti Terra per soddisfare il nostro fabbisogno attuale di risorse naturali.
I costi di questo crescente sbilanciamento ecologico stanno diventando sempre più evidenti nel mondo e li vediamo sotto forma di deforestazione, siccità, scarsità di acqua dolce, erosione del suolo, perdita di biodiversità e accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera (Global Footprint Network, 2017).
photo: Von Gerhard Roux <gerhard@sundown.homeip.net> – Nokia 6280 GSM phone camera. Short taken from microlight aircraft, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3481556
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Riportare i diritti nel lavoro. Leggi qui la prefazione di Susanna Camusso[3] al 15° Rapporto
Il vecchio che avanza. Leggi e scarica qui l’introduzione di Sergio Segio[4] al 15° Rapporto
La presentazione alla CGIL di Roma[5]
Qui la registrazione integrale della presentazione[6] alla CGIL di Roma del 27 novembre 2017
Qui le interviste[7] a Sergio Segio, Patrizio Gonnella, Marco De Ponte, Francesco Martone
Qui notizie e lanci dell’ANSA[8] sulla presentazione del 15° Rapporto
Qui il post di Comune-Info[9]
Qui si può ascoltare il servizio di Radio Articolo1 curato da Simona Ciaramitaro[10]
Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37[11]
Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21[12]
Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018[13]
Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto[14]
Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018[15]
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