Dopo Helsinki. La marcia indietro dell’Europa che rimane solo un’espressione geografica

Dopo Helsinki. La marcia indietro dell’Europa che rimane solo un’espressione geografica

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L’Europa è stata, è, sarà per il tempo prevedibile un’espressione geografica. Peraltro imprecisata, almeno nei suoi confini orientali, che i manuali normalmente assegnano a una modesta catena montuosa interna alla Russia, gli Urali. Non hanno forse torto quei geografi russi che designano il nostro continente, dall’alto del loro immenso spazio, quale “Asia anteriore”.

Di sicuro, l’Europa non è un soggetto geopolitico. Altrettanto certamente l’Unione Europea non è l’Europa — anche se curiosamente per noi italiani sono sinonimi — ma una istituzione che sfugge a ogni classificazione canonica, oggi in profonda crisi di identità e di legittimazione. Non c’è dunque da meravigliarsi se, nel loro caloroso incontro di Helsinki, Donald Trump e Vladimir Trump abbiano come d’abitudine trattato gli europei come oggetti e non da coprotagonisti della scena mondiale.
Tutto questo può apparirci sgradevole, ma non sorprendente. Per quasi tre generazioni gli italiani sono stati abituati a mangiare pane ed Europa. Evocata come un altrove vagamente nordico, spesso identificato con la Germania, dal quale dovremmo apprendere le buone maniere, visto che da soli stentiamo a governarci. Nessuno ama le pedagogie permanenti, sanzione della propria inferiorità. Sicché non stupisce se di recente siamo slittati dall’eurofilia ebete all’aspra eurofobia: stando all’Eurobarometro solo croati e cechi gradiscono l’Ue meno di noi. Finché resteremo imprigionati in questo ottovolante di smodate passioni, favorevoli o demonizzanti, capiremo poco del nostro posto in Europa e nel mondo.
Un rapido sguardo al passato ci aiuta a decrittare gli approcci delle maggiori potenze allo spazio veterocontinentale. Tra il 1814 e il 1914 — apertura del Congresso di Vienna e colpi di pistola a Sarajevo — le maggiori potenze europee, all’epoca regine del mondo, seppero concordare un regime geopolitico che per due estesi periodi (1815-54 e 1871-1914) impedì qualsiasi guerra fra loro.
All’inizio dello scorso secolo vigeva l’Europa mondiale: persino Stati europei relativamente esigui — dal Portogallo all’Olanda o al Belgio — disponevano di vasti imperi transcontinentali. In un trentennio (1914-1945) si consumò il suicidio in due tempi dell’egemonia globale europea.
Persino Francia e Regno Unito, formalmente fra i vincitori di entrambi i conflitti, ne uscivano con le ossa rotte. Da allora il destino di noi europei non è più, in buona parte, nelle nostre mani. Per oltre mezzo secolo, dalla sconfitta dell’Asse alla riunificazione della Germania e al crollo dell’Urss (1990-91), la parte prevalente dei paesi europei a occidente della cortina di ferro si incamminò — sotto impulso, guida e tutela americana, codificata nella Nato (1949), dunque come avanguardia dello schieramento antisovietico — verso l’integrazione economica e monetaria (da Roma 1957 a Maastricht 1992). Peraltro incompleta. Regola di tale ingegnosa architettura era il moto perpetuo quale surrogato della meta comune. Bisognava pedalare in sincrono, non importa verso dove: mettersi d’accordo sull’obiettivo finale — federale, confederale o quant’altro risultava e resta impossibile. Finché ci siamo stancati di farlo. Oggi ognuno muove i pedali o azzarda il surplace come crede.
Il principio base delle Comunità poi dell’Unione Europea era e resta identico a quello dell’Alleanza Atlantica: americani dentro, russi fuori, tedeschi sotto. Dopo il suicidio sovietico e la rinascita della Russia in formato ridotto, l’insieme euroatlantico a guida americana ha deglutito gran parte dell’ex impero di Mosca.
Non per caso lo spazio dell’Ue e quello della Nato coincidono quasi perfettamente.
Quanto alla Germania unita, di cui alcuni germanofobi (Thatcher, Mitterrand, Andreotti) temevano dopo il 1990 l’incomprimibile vocazione imperialista, si conferma invece incapace di egemonia. La sua politica economica elevata al grado europeo — una filosofia morale, o immorale — assorbe liquidità dai partner comunitari e vi esporta deflazione: il contrario di quanto seppero fare gli Stati Uniti dopo la seconda guerramondiale. La sua cultura strategica è nebulosa e reticente.
La disponibilità all’uso della forza tuttora limitata, come e più del suo modesto strumento militare.
Risultato: né un’Europa tedesca né una Germania europea.
L’Europa — qualsiasi cosa si intenda con questo nome — non esprime un egemone interno. Ed è sempre più oggetto di vettori esterni, sui quali non ha controllo: dai flussi migratori alle strategie americane, russe, ormai anche cinesi.
I sorrisi e la palese complicità fra Trump e Putin non ingannino. Gli interessi di fondo delle due potenze, alquanto asimmetriche, restano inconciliati.
L’establishment politico, militare e amministrativo americano continua a considerare la Russia il nemico per antonomasia. Pur se in meno di trent’anni ha costretto Mosca ad arretrare da Berlino a Sebastopoli (-1717 chilometri), per Washington la Russia resta inaffidabile e minacciosa. Inoltre, come e più di prima gli Stati Uniti guardano alla Germania come a un competitore e a un potenziale nemico, laddove slittasse troppo, non solo via gas, verso il campo russo, creando in Eurasia un polo di potenza capace di minare il primato a stelle e strisce.
Per i russi, non solo per Putin, la Nato — ovvero l’America in Europa — è spada di Damocle che pende sulla loro testa, pronta a staccarla dal collo. Stretta fra il nemico americano e l’”amico” cinese (Putin amerebbe scambiare i ruoli: non può), la Federazione Russa si preoccupa di dividere gli europei fra loro e dagli americani.
Certo, né gli americani né i russi hanno interesse a destabilizzare lo spazio europeo oltre il limite di guardia. Solo un pazzo potrebbe immaginare, a Mosca come a Washington, di aver qualcosa da guadagnare da una conflagrazione europea, destinata a involvere in catastrofe globale. Ma dove siano le “linee rosse” da oltrepassare per evitare un conflitto accidentale, nessuno sembra saperlo con certezza.

* Fonte: LUCIO CARACCIOLO, LA REPUBBLICA



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